Possiamo immaginare che quando François Guessard, filologo e professore alla prestigiosa École des Chartes parigina, venne incaricato nel 1856 per decreto imperiale di Napoleone III di dirigere la serie di testi medievali «Les anciens poètes de France» avesse già chiaro lo spirito che avrebbe sorretto il monumentale piano di pubblicazioni: i 40 volumi previsti avrebbero testimoniato, a beneficio di un pubblico internazionale di eruditi o semplici curiosi, le più antiche manifestazioni del «genio francese», autentici archetipi letterari radicati nel cuore dell’Europa, «quei racconti meravigliosi, la maggior parte dei quali un tempo hanno goduto di una popolarità universale e hanno lasciato, anche all’estero, memorie non ancora sbiadite». Ma per Guessard l’eco di quei «récits merveilleux» non si propagava dal lascito ereditario della più nota letteratura romanzesca, dalle storie di Artù e Lancillotto, del mago Merlino, di Tristano e Isotta: era dall’imponente patrimonio delle antiche chansons de geste che la politica culturale del Secondo Impero puntava a distillare l’anima della Francia. Un nazionalismo dichiarato e per molti aspetti grossolano, emanazione della competizione con il mondo germanico negli anni della tensione franco-prussiana, presiedeva al recupero dei grandi poemi epici del medioevo francese: circa una novantina di chansons composte fra l’XI e il XIV secolo che mettono in scena la guerra come lotta tra il bene e il male, come conflitto tra legge e sopruso, tra lealtà e tradimento; e che soprattutto celebrano il valore dei cavalieri, che può esprimersi come coraggio e dedizione sublime alla causa, ma anche come forza brutale, tracotanza, spietatezza.

Una letteratura percepita come fondativa, esemplare nelle sue figure di eroismo magniloquente, nella grandiosità della rappresentazione, nello stesso intreccio tra invenzione narrativa e realtà storica. Il patriottismo di stampo imperiale cercava così un innesto sulle origini più remote del regno francese, quella monarchia carolingia che resta sullo sfondo nel prototipo insuperato del genere, la Chanson de Roland. Il progetto di Guessard non sarebbe andato oltre il decimo volume, inghiottito con il regno di Napoleone III dalla débacle francese nella guerra contro la Prussia. Passata quella stagione di recuperi, tra le ingenuità e i limiti di letture tardoromantiche o nazionalistiche, l’interpretazione in chiave socio-politica della migliore storiografia sul medioevo avrebbe decifrato della chanson de geste la sottesa ideologia e le finalità propagandistiche, riconoscendo il motore della macchina narrativa del genere nel rapporto instabile dell’aristocrazia feudale con il potere monarchico fra XI e XIII secolo.

Agli affreschi dell’età feudale restituiti dalla storiografia di Marc Bloch e Georges Duby, Mario Mancini riconduce ora il racconto epico, decrittandone magistralmente i motivi portanti, nell’introduzione a un volume da lui curato in collaborazione con Marco Infurna: Le canzoni di gesta dei vassalli ribelli (Bompiani «Classici della letteratura europea», pp. CXVIII-2000, euro 70,00), che raccoglie con testo francese antico a fronte, cinque capolavori della canzone di gesta: Renaut de Montauban (Rinaldo di Montalbano), Raoul de Cambrai, Girart de Roussillon, La Chevalerie Ogier (Uggieri il Danese), Huon de Bordeaux, nel testo fissato da edizioni critiche autorevoli, ma sottoposto al vaglio filologico dei singoli curatori, e nella forma di una ricca selezione antologica (con l’eccezione di Renaut de Montauban, in versione integrale), per un totale di poco meno di 49.000 versi (le note introduttive ai testi, la traduzione e il commento sono affidate, oltre che ai due curatori, ad Andrea Fassò, Gianfelice Peron e Elena Podetti).

L’etichetta di «canzoni dei vassalli ribelli» che marca i testi nel titolo individua quello che Mancini definisce «il blocco più consistente e più drammatico dell’epica francese medievale»: sono le canzoni nelle quali i rapporti di fedeltà e sottomissione al potere regale dei protagonisti – gli stessi rapporti che negli esemplari più antichi del genere legano i generosi paladini a Carlo Magno e ai suoi figli – sono corrosi dai vizi di un’autorità monarchica che si rivela indegna del proprio ruolo, espressione di «una regalità problematica, ambigua, contrastata». Ne diventa emblema, immagine deforme di una monarchia dispotica e oppressiva, la figura di Carlo Magno, che in queste canzoni recita il ruolo del sovrano tirannico e infido, cupido e capriccioso, in cortocircuito con la figura dell’imperatore ammantata di un’aura sacra nella Chanson de Roland: nel Renaut de Montauban si abbandona alla persecuzione iniqua, selvaggia, di Rinaldo e dei suoi fratelli, al punto che nelle sue «fantasie incontrollabili e feroci la sua insipienza confina con la labilità mentale»; in Huon de Bordeaux una tracotanza quasi infantile ne stravolge i tratti, il re «sempre imperioso e arrogante, si tinge qui di colori bizzarri e un po’ perversi», diventando «un re da opera buffa». Assente o relegato sullo sfondo il grande tema epico della guerra contro i pagani, il movente che spinge i protagonisti è il riscatto da una grave ingiustizia (tipicamente, la riconquista del feudo di cui sono stati defraudati o la vendetta di un oltraggio, come l’assassinio impunito, per volere del re, di un figlio nella Chevalerie Ogier): al rapporto di vassallaggio con il sovrano che innervava il plot dei testi più antichi si sostituisce così la fedeltà di sangue del lignaggio, che lega indissolubilmente fra loro i membri della stessa stirpe, richiamando gli istituti della vendetta e della faida.

Nella violenza dei conflitti che incessantemente muovono il racconto si compone il quadro di un’età feudale dominata da un ethos germanico istintuale e tribale, la ribellione al potere fa dell’eroe un fuggitivo di fosca grandezza, spesso preda, come i suoi persecutori, di impulsi incontrollabili, dominio oscuro dell’irrazionale: dai testi si libera «la minacciosa bellezza dei cavalieri, fatta di terrore e di luce», «il “cuore di tenebra” dei loro istinti distruttori». Con passione critica e autorevole perizia filologica, i curatori ci restituiscono l’alterità di questo medioevo guerriero, che sa però aprirsi al comico o all’incanto fiabesco ed esotico in un testo come Huon de Bordeaux, dove più scoperti sono i contatti con il genere del romance; qui – a differenza dei recuperi cinematografici o a vario titolo narrativi – senza la mediazione di sceneggiature accomodanti, accudenti e naturalmente falsanti, richiamate nell’ammiccante Trono di spade scelto da Mancini come sottotitolo per la sua introduzione. Con gli accurati paratesti esegetici che orientano nella lettura e nello scioglimento delle fittissime trame, la traduzione si assume il compito di condurre per mano in questo mondo altro, patteggiando il movimento verso un italiano attuale con l’attrazione verso la cadenza della lassa epica, che ritaglia un’arte del racconto a sé, nella fascinazione di uno stile laconico e formulare: la perfetta misura data da un’oggettività rarefatta, che non ha cedimenti di ritmo, nell’azione e nei dialoghi come nell’iperrealismo compiaciuto che mette in scena violenza ed efferatezza, con mutilazioni e sangue, crani spaccati e occhi saltati dalle orbite. Tutti marchi di fabbrica del genere epico, con una naturale vocazione all’eccesso, all’iperbole, ma esenti dalle contaminazioni di posticcio e grottesco del nostro più addomesticato splatter.

Una tradizione ininterrotta, che passa per il poema cavalleresco e per quello eroicomico per approdare all’opera lirica e alle serie televisive, ci lega a questi personaggi leggendari, violenti o bizzarri, comici o perfino romantici: i fieri Orlando e Rinaldo, il mago e ladro Malagigi, il piccolo e bellissimo re delle fate Auberon, Esclarmonde, la principessa saracena… Basta pronunciare i loro nomi e li riconosciamo, nel bagliore delle loro armature o dissimulati sotto altre maschere, ancora fra noi.