In un abbozzo di voce enciclopedica titolata Poesia e prosa, Jurij Lotman osservava come nel verso libero le caratteristiche specifiche della scrittura poetica si riducano al minimo; perciò, ai fini della sua legittimazione diventa cruciale la percezione del pubblico: «Nelle culture dotate di una tradizione versificatoria particolarmente elaborata, affinché un testo possa dirsi poetico, è sufficiente la presenza di segnali che consentano all’uditorio di riconoscerlo come tale». Connotata da una adesione spasmodica agli schemi metrici e da un inesausto dialogo con il proprio passato, la poesia russa è tuttora decisamente restia ad abbandonare la regolarità normativa scandita da sillabe, accenti e strofe – non a caso, il concetto di «verso libero» viene solitamente indicato con un calco dal francese, verlibr.

Tra gli autori che, di recente, si sono avventurati con maggior pervicacia in questa terra incognita, Semen Chanin, pseudonimo di Aleksandr Zapol’, poeta nato a Riga nel 1970 e autore già di due sillogi tradotte in italiano, ha affidato le sue sperimentazioni agli aspetti non solo prosodici, ma anche performativi del linguaggio. Alla raccolta Omissis, curata da Massimo Maurizio nel 2017 per l’editore Miraggi, si aggiunge ora il volumetto Sessione di ipnosi (Pequod, resa di Elisa Baglioni, attenta a quelle sottili transizioni ritmiche e sonore in cui si riassume la cifra stilistica di Chanin, pp. 80, €12,00).

Per il poeta baltico, che fu allievo di Lotman a Tartu nei tardi anni Ottanta, la rinuncia a schemi metrici codificati non è dovuta tanto alla volontà di avvicinarsi alla naturalezza del parlato, quanto al desiderio di estendere in altre direzioni il territorio di ciò che chiamiamo poesia. In questo senso andrà letta la sua collaborazione, in qualità di componente del collettivo poetico Orbita, con videoartisti e dj, allo scopo di rielaborare in una dimensione multimediale il rito della declamazione in pubblico, fondamentale per la cultura russa. L’aspetto strettamente verbale di Sessione di ipnosi mostra una trama sonora densa di allitterazioni, consonanze, cacofonie, ossessive insistenze su singole lettere o sillabe, in perfetta sintonia con l’evanescenza non solo dell’io lirico, ma delle cose che lo circondano.

Il grottesco trionfa
Leggere Chanin è un po’ come tastare un oggetto ignoto al buio, poiché a essere esclusa dai suoi componimenti non è soltanto l’immediata riconoscibilità delle strutture poetiche, ma anche quella delle situazioni cui la voce lirica dà espressione. Le esigenze ritmiche del linguaggio nel suo divenire poetico disfano e riassemblano il reale secondo tonalità che, lungi dal richiamare alla mente la figura del vate, evocano piuttosto quella del pagliaccio, dell’acrobata, del giocoliere o perfino del palombaro – controfigure dotate di una spericolatezza innegabile, ma talora goffa, con cui Chanin tende a identificarsi. L’io lirico appare per lo più impegnato in complessi esperimenti con la propria immagine: si sforza di somigliare «a una foto sfocata dell’anno passato», eppure sconsolato non può evitare di ammettere che «non hai modo di sintonizzare, regolare / come una vecchia radio lo specchio».

Incapace di accordare l’evidenza esterna alla propria interiorità, il poeta si rassegna a vivere in un mondo grottesco e ingestibile, dove anche le azioni apparentemente più insignificanti, a causa di questa dissonanza di fondo, sono destinate a generare conseguenze catastrofiche. Banali incidenti domestici («apri l’acqua – squilla il telefono / affogando rispondi / forse insieme a te / si è insediato nel bagno un centro informazioni / come siete risaliti al mio numero – dalla voce insaponata magari?») si succedono a inopinate rivolte degli oggetti – come se dai semafori per esempio sparisse di colpo il rosso: «che si sia spento per sempre e irrimediabilmente / lo si capisce dal vuoto che lascia e dall’apatia che avanza / anche ingegnandoti a fermarti in tempo / non vedrai comunque la sua luce riflessa sull’asfalto».

Echi dell’avanguardia Oberju
Riallacciandosi all’avanguardia leningradese degli anni Venti, e in primis al gusto per l’assurdo coltivato dal gruppo Oberju, Chanin ci consegna squarci di stupore metafisico che, benché risalenti ad alcuni anni fa, entrano in inquietante risonanza col nostro presente dominato dalla pandemia: «al risveglio ogni volta in un nuovo / strano posto con divieto d’ingresso / nell’attesa d’un tratto potrebbe balzare / allo sguardo il proprio viso arcinoto / che fa l’occhiolino per mascherare la paura / di non essere più da solo».