Spesso lottano durante il sonno e il giorno seguente portano i segni della notte, talvolta sono smemorate simili a equilibriste sonnambule, oppure blu e parlano con l’aria mentre lavano le scale del dolore, ogni anno osservano una nuova cicatrice e accolgono il silenzio che tutti i rumori comprende. Attonite a meravigliarsi del creato, sono numerose le bambine che occupano le pagine, sia poetiche che in prosa, di Chandra Candiani. Stanno accanto agli animali, alle piante, a ciò che abita la terra oltre l’aridità umana. Rappresentano il legame, saldo e profondo, che l’infanzia ha con le voci del mondo, con l’amore e il suo contrario, con l’attitudine alla solitudine eppure vicino ad altri esseri o enti soli quanto loro. La distanza necessaria con altre forme di vita non è tuttavia isolamento, piuttosto consente di riconoscersi, proteggersi e salutarsi, di osservarsi prima del passo successivo. E di provare amore. Come accade alla protagonista del primo racconto che apre la raccolta Sogni del fiume (Einaudi, pp. 128, euro 14) da oggi in libreria in una edizione rivista (la prima era del 2001 per Vivarium) e con l’aggiunta delle bellissime e suggestive illustrazioni di Rossana Bossù.

SI TRATTA di una parabola lieve nel cui centro vi è appunto una bambina che si appassiona a un corso d’acqua. Lui le dice che non è possibile, questo amore, ma lei ha occhi liberi e dunque sa ciò che un’innamorata deve sapere: conosce il nome dell’amato, lo pronuncia nella mente, senza parole, insieme alla promessa di corrergli accanto. Sempremai, così si chiama il fiume. Sempre e mai, queste le due parole che lui le scrive sulle mani. Spiritualmente irrequiete, e per questo erranti, le creature che aleggiano nelle pagine di Chandra Candiani non pretendono niente tranne l’attesa di potersi finalmente dire intere, stando al cospetto di un ardore, che lo si debba avvertire «fino alle braci» (incontrate in Il silenzio è cosa viva – Einaudi, 2018) o nel vento d’Africa (lo ritroviamo in Sogni del fiume) che un mattino qualunque, dopo tanto aspettare, arriva a trasmutare la sorte di una rosa selvatica portandola nel deserto.

Il problema non è la permanenza, bensì accettare la transitorietà; sarà per questa ragione che «non esistono posti sicuri» – come recita una poesia di La domanda della sete (Einaudi, 2020) – «ma custoditi da animali sì» e, alla fine di tanta oscurità, compare un «noi»: «noi ci vogliamo il bene/ delle case a mezzanotte». È lo stesso calore con cui «Io» lievita, insieme ad acqua e farina, scoprendosi nel caldo del fare il pane; un «Io» che per Candiani è individuazione incontrata nella raccolta in versi Vista dalla luna (nel 2006 per Vivarium e nel 2019 per Salani), un corpo a corpo con la propria origine e che, ancora trasformata, ha riscontro in La bambina pugile (Einaudi, 2014): «Io è tanti/ e c’è chi crolla/ e chi veglia/ chi innaffia i fiori/ e chi beve troppo/ chi dà sepoltura/ e chi ruggisce./ C’è un bambino estirpato/ e una danzatrice infaticabile/ c’è massacro/ e ci sono ossa/ che tornano luce».

LA MOLTITUDINE di volti e identità di cui è affollata la relazione, con sé stessi e con gli altri, è contrappunto attraverso cui la poeta propone di visitare quelle ferite-fessure che, conclude, si mescolano perché in fondo «Io è un abbraccio». Tema cruciale, l’abbraccio è «disarmo delle ali», allargarsi per accogliere lo spazio imprevisto dell’incontro – ne parla a lungo in un fitto dialogo con Gabriella Caramore (L’universo e la carità – AnimaMundi, 2019).
Anche in Sogni del fiume c’è la coscienza di essere parte di una vastità, di una ampiezza che dall’interrogazione del sé si espande verso il circostante. Sottigliezza, non solo della vista, bensì dei sensi tutti, conosciamo pesci, formiche, usignoli, merli, cavalli alati, pozzanghere, bucce d’arancia che battezzano pattumiere dal cuore narrante, c’è poi Leilui – nata in una notte di dicembre proprio come Candiani – a cui una margherita svela «il destino di tenere acquattato il mistero». Lo stesso che circola dentro un altro racconto, brevissimo e iniziatico, dal titolo «La bambina zero», in cui l’infanzia si fa ancora una volta metafora di un tempo non lineare ma rotondo per indicare che, a ogni età, può emergere la presenza-bambina in mezzo all’anima, «in un giardino selvatico e senza sentiero».

Non c’è un attacco verso l’età adulta e neppure l’idea che crescere significhi abbandonare l’incanto o la capacità di farsi veggenti. In questi racconti, che si leggono come fiabe orientanti, Chandra – che in sanscrito significa Luna e che è fine traduttrice di testi buddhisti di cui, tra gli ultimi, ricordiamo la raccolta poetica di Thich Nhat Hanh, Chiamami con i miei veri nomi – segna la genesi di una lunga ricerca con radici incarnate e visibili.

GIÀ NEL 2015, dal lavoro con i bambini della periferia milanese, nasce il volume curato insieme ad Andrea Cirolla, Ma dove sono le parole? (Effigie edizioni), in cui sporge una delle traiettorie predilette del suo percorso e che dà il titolo a uno dei suoi volumi più recenti: Questo immenso non sapere (Einaudi, 2021). Cosa abbiano a che fare bambini, parole e non-sapere lo spiega la stessa Candiani raccontando il suo studio in età scolare: «Restavo allibita dal non sapere. Lo stesso poi con la letteratura e con la poesia: più leggevo e più mi sfuggiva tutto di mano. Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo più sperimentavo. E più tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra».

Un filo d’oro di antichissima fattura congiunge allora le creature piccole al linguaggio e alla meditazione; là dove il pericolo sarebbe quello di sprofondare nel caos della mente, la scrittrice mostra il cammino di una esplorazione che comprenda ogni conversazione con il cuore umano e non umano. E se tra i passaggi, soprattutto per chi pratica il buddhismo come lei, c’è l’eloquenza di un vuoto che fa ordine, appare chiaro quanto ciò risponda alla poesia, alle parole di un luogo precedente la paura. Tremare non è attività diminutiva di chi dovrà soccombere ma caratteristica che distingue chi è vivo da chi sceglie di non esserlo. Negli interstizi di questa rinnovata consapevolezza, Sogni del fiume riposa nel solco di una «educazione sentimentale», come la definisce la stessa Candiani nella prefazione, che risuona di preghiera.

POTENTE LODE dell’inutile, perché inservibile o ai margini di una revoca già avvenuta, è infatti collocabile in un fuori luogo di gioia in cui si può trovare pace contro l’assalto della prestazione a ogni costo, del consumo forsennato. Giacciono così le invenzioni di chi è certa vi sia «posto per chiunque sulla terra, e anche sotto il mare e anche in cielo e anche sottoterra» fino a inaugurare una collettività di non invitati, di non visti, di perduti e rifiutati, di non compresi o espulsi dal consesso umano e che invece splendono di conforto reciproco, di alleanza, di riparazione, altra parola quest’ultima assai cara al percorso della poeta.

Possiedono la semplicità del suono di una musica felice che attraversa i capelli di un ragazzino o la tenacia di chi impara a rammendare al buio, separando e unendo, cucendo e smontando. Sono insomma esseri, umani e non, che si animano anche quando sono oggetti di uso comune. E che sono qui, nella prossimità di quei «delicati» che si affacciano in Fatti vivo (Einaudi, 2017): «non vogliono diventare/ forti, ma sminuzzare il male/ tra spalle e cielo, essere/ dalla luce alla luce/ spediti».