Rappresentazione puntuale del principio di potere e dell’incrocio tra fascino e mistificazione, mentre racconta la resistenza solo inerziale all’ipnosi del comando, La moglie del rabbino – romanzo breve in lingua yiddish di Chaim Grade, tradotto con sobria, inappuntabile eleganza da Anna Linda Callow per Giuntina (pp. 213, € 18,00) è anche un’istantanea sul mondo della Lituania tra gli anni Venti e Trenta del Novecento dove, in contrasto con il fiorire e lo sfiorire delle corti chassidiche polacche, prosperava il talmudismo dei mitnagdim, gli accesi «oppositori» della religiosità chassidica, la cui roccaforte, Vilnius, era una piccola e fulgida Gerusalemme degli studi talmudici. Nel ripercorrere le tensioni superficiali e sottocutanee dell’ebraismo est-europeo, La moglie del rabbino illumina bene la faglia che corre attraverso il mondo ortodosso lituano, diviso ideologicamente tra i fautori del sionismo religioso, riuniti nell’organizzazione Mizrachi, e il fiero antisionismo della Agudat Yisrael, il braccio dell’ebraismo più oltranzista. Un paesaggio umano che – come sottolinea Anna Linda Callow nell’efficace postfazione ribadendo la profondità quasi «sociologica» delle pagine di Grade – si è poi trasferito integralmente nella galassia ultraortodossa dello Stato di Israele, nelle più disparate fisionomie della stretta osservanza religiosa.

Un papa degli ebrei
Questo il filo della storia: protagonista Perele, una donna colta e acuta, figlia dell’illustre rabbino di Staripol, che ha assorbito fin da bambina erudizione e dinamismo intellettuale. È promessa a Moshe Mordechai Ayznshtat, astro nascente degli studi talmudici che tuttavia ricusa l’accordo matrimoniale a un passo dalle nozze e va per la sua strada, a rivestire l’ufficio di rabbino capo nella lituana Horodne/Grodno, cui unirà la carica di presidente del tribunale rabbinico cittadino e una fama che si espande a cerchi concentrici fino alla nomina a responsabile di tutte le accademie talmudiche di Lituania. Il gesto sovrano e l’alto magistero ne fanno, per voce della comunità e del circondario, una sorta di papa degli ebrei, alla cui autorità, custodita da mille occhi e venerata da altrettanti rivoli di devozione, si rivolgono persone da tutto il mondo per sciogliere complessi nodi normativi.

In seconda scelta, Perele si unirà al mite e prudente Uri Zvi Kenigsberg, rabbino capo della sonnacchiosa Graypeve e buon predicatore, da cui avrà tre figli. Nella sua qualità di rebetsin – alla lettera moglie del rabbi, ma insieme titolo prestigioso che racchiude in sé alto lignaggio, scrupolosa osservanza dei precetti, carisma sociale – si occupa di dirigere e instradare le azioni del marito, attenta a stornare ogni voce pubblica di contrarietà, in continua sorveglianza sulla reputazione della famiglia. Una volta accasati i figli e passata la mezza età, Perele decide di riprendersi ciò che in gioventù le era stato sottratto e, come un cuneo, si inserisce nella prudente e assennata quotidianità del marito, spronata da un’urgenza di rivalsa che determina tutte le sue azioni. Sotto l’impulso di un’offesa da rimarginare e dell’irresistibile desiderio di alterare l’ordine, la rebetsin dispiega tutta la sua capacità manipolativa e induce il marito – reso docile dal senso del dovere, dall’affetto, dall’abitudine – a distruggere la vita e la fama dell’antico fidanzato, facendo leva su opposte fazioni nella città di Horodne, in un mulinello di disgregazioni che obbedisce unicamente al motore della compensazione emotiva.

Alla traduzione, senza precedenti, del romanzo di Chaim Grade va riconosciuto il merito di avere portato all’evidenza la qualità di un autore del tutto ignoto al pubblico italiano. Cantore della Vilnius ebraica in versi e prosa, tra i maggiori scrittori yiddish del Novecento, Grade ferma, sulle pagine dei suoi libri, perfetti quadri d’ambiente, dove sono richiamate, di volta in volta, la vita religiosa, gli scontri tra tradizionalisti e innovatori negli anni Trenta, l’ultimo decennio in cui la capitale lituana splenderà per ampiezza e profondità di studi talmudici, essendo insieme fucina di laicità, nelle diverse linee del pensiero sionista, dell’idea socialista pura e della sua versione ebraica nel Bund.
Grade segue la curva declinante dell’universo religioso lituano insidiato dalla modernità, restituendo un diorama crepuscolare di studiosi della Torah, saggi ebrei, studenti di yeshivah, giudici, cantori di sinagoga, mariti pigri e taciturni o assorti nelle volute della dialettica talmudica, mogli pragmatiche e piantate a terra. Ma il mondo letterario di Grade investe soprattutto quella che si potrebbe dire una realtà del giorno dopo, nata nel tempo della perdita, a testimoniare di un universo ormai sommerso.

Dopo lo sterminio, Grade si trasferì oltreoceano dove scrisse buona parte del suo lavoro in prosa e, nel 1974, pubblicò La moglie del rabbino. Più che la poesia, intima e a tratti elegiaca e oleografica, i romanzi yiddish di Grade – pur evocando costellazioni ebraico-orientali e un mondo di ieri non più rintracciabile lì dov’era – sono tessere di grande scrittura moderna. Attingendo alla solidissima tradizione narrativa continentale e statunitense, Grade è abile nel creare intrecci, nello scavare gli interni psichici, nel rendere il dettaglio, nel disegnare i movimenti dei personaggi. La moglie del rabbino è un esempio di questa perizia narrativa: la psicologia delle sue figure è scandagliata in profondità, in toni e sottotoni, tra il detto e il taciuto, nella continua corrispondenza tra paesaggi e stati d’animo, mutamenti naturali e tempo che trascorre. Grade è uno stilista nell’evocare ambienti, quadri lirici dove la natura, soprattutto nei notturni e negli invernali, risponde, in sfumature digradanti dal dolce e all’aspro, ai moti interiori dei protagonisti. Forze e debolezze di carattere, maschere di superficie e intenzioni profonde vengono registrate con precisione sismografica. Soprattutto la protagonista del racconto è personaggio moderno e rotondo, mai appiattito sui cliché che spesso accompagnano la figura femminile ebraica, dalla yiddishe mame alla moglie devota.

Personaggio mercuriale
Perele è figura bifronte: alla posizione salda di timoniere familiare e di tutrice della buona nomea, unisce un carattere malmostoso e nevrastenico, che alterna capricci a castighi, rivendicazioni a ipocondrie, con una fisicità e una tenuta psicologica paragonabili a un fil di ferro. Un temperamento mercuriale che, conservando la compostezza dei modi, si impone attraverso lo sguardo perentorio e ipnotico come quello di un illusionista: «sei intelligente ma non sei buona», le dirà il suo primo fidanzato prima di sciogliere la promessa. Mai toccata dal discorso allegorico, mai cifra di qualcosa che la oltrepassa, la moglie del rabbino è com’è: impastata di bassezze e fragilità, giudiziosa ma bruciata dall’ambizione, incapace di sotterrare il passato, in un amalgama di finezza e di miseria che la avvicina al lettore moderno oltre ogni distanza temporale.