«Eni, Enel, Poste, Trenitalia, Alitalia: sono grossi committenti, alcuni a controllo pubblico, che non hanno mai delocalizzato. Adesso, con il piano Calenda, saranno spinti a farlo. Altro che 20 mila nuovi posti in Italia: qui si rischia la fuga di ulteriori 7500 – 8 mila postazioni all’estero». Michele Azzola, segretario generale della Cgil Roma e Lazio, ha seguito per anni i lavoratori dei call center, e oltre a svelare i rischi del «Protocollo Calenda», denuncia il caso Simest-Almaviva: un investimento pubblico nell’azionariato dell’azienda romana – attraverso una controllata brasiliana – proprio nei mesi in cui venivano licenziate 1.666 persone.

Il Protocollo Calenda avrebbe un fine nobile: mettere un tetto alle delocalizzazioni. No?

Quel testo è una presa in giro, dettata da incompetenza sul settore. Se imponi un 80% minimo prodotto in Italia, stai dando l’ok a delocalizzare il restante 20%: io aggiungo 25%, perché so che c’è una trattativa su quel numero. Così hai due effetti: avalli quel 20-25% che le grosse compagnie telefoniche hanno già delocalizzato da anni. E in più spingi a delocalizzare i grossi committenti che non lo hanno mai fatto: Eni, Enel, Poste, Trenitalia, Alitalia. Peraltro molti di loro a controllo pubblico.

Alcune di queste aziende in passato avevano cercato uno «sfogo» bandendo gare già al di sotto dei contratti nazionali. Adesso avrebbero l’ok di Stato a delocalizzare. Perché parlate di 8 mila posti a rischio?

Non è un numero a caso. Nei call center italiani lavorano 80 mila addetti, 45 mila dei quali per l’inbound. Abbiamo calcolato il 25% di questi 45 mila, avendo però già sottratto dalla base gli operatori delle grosse compagnie telefoniche – da Vodafone a Tim – che da tempo hanno delocalizzato, appoggiandosi a Comdata o Almaviva in Romania, a Teleperformance in Albania e così via. Gli 8 mila sono appunto addetti italiani che fino a oggi erano «protetti», e che si vedrebbero rovinati dal Protocollo Calenda, perché dipendenti di aziende che non hanno mai autorizzato l’outosourcing all’estero. Il ministro sta dicendo agli ad di questi grossi committenti: ok, per il 25% d’ora in poi potete delocalizzare.

Il ministro ha aperto un tavolo? Vi ha mai consultato?

Non c’è nessun tavolo. Calenda ha scritto 3 pagine di bozza che sta mandando via mail agli amministratori delegati dei grossi committenti. Punto. E tra gli impegni generici del testo ce n’è uno rivelatore: «Dal presente protocollo – recita – non ci saranno aumenti di costo per la committenza». Impegno che mi pare più realisticamente sostenibile delocalizzando, e non riportando lavoro in Italia.

L’impegno sui contratti nazionali, però, pare condivisibile.

Assolutamente sì, ma non prevede obblighi. Perché non si è applicato, già da anni, il 24 bis sulle regole per il trattamento dei dati sensibili nella Ue? Sarebbe stato un vero deterrente contro le delocalizzazioni: adesso, da poco, c’è una legge, ci sono le sanzioni, ma è un timido tentativo di mettere un recinto dopo che i buoi sono già usciti.

I 1.666 licenziati da Almaviva. Una storia tragica. La Cgil chiede chiarimenti sul caso Simest. Cosa è successo?

Una ventina di giorni fa abbiamo saputo che la Simest, società per gli investimenti esteri della Cassa depositi e prestiti – quindi un ente pubblico – ha investito 15 milioni di euro per entrare nell’azionariato di Almaviva do Brasil, controllata brasiliana di Almaviva. Ha acquisito il 5% di azioni. L’operazione non ci è chiara in tutti i contorni, l’abbiamo appresa dalla stampa brasiliana: secondo alcune fonti l’investimento sarebbe composto da 7 milioni in contanti, 3 in fideiussioni e 5 in assicurazioni. Ma insomma, come siano composti, alla fine sempre di 15 milioni di euro pubblici si tratta.

Bene, e cosa ci vedete di male in questa acquisizione?

L’operazione è stata chiusa lo scorso agosto. In piena «bufera esuberi». Nel febbraio 2016 Almaviva aveva annunciato 3 mila licenziamenti sui siti di Roma, Napoli, e Palermo. Abbiamo avviato una trattativa, e improvvisamente, nella notte del 29 maggio, il ministro Calenda e l’azienda abbandonano il tavolo e ci lasciano per 4 ore ad aspettare. Quando tornano, propongono un accordo che riduce gli esuberi, non prevede più licenziamenti e anzi prospetta un piano di ammortizzatori a scalare in 18 mesi. Io ho pensato: forse avrà prospettato loro una nuova commessa.

E avete firmato. Ma poi, in settembre, sono arrivati nuovi 2.511 licenziamenti: evitati a Napoli, ma realizzati in dicembre per 1.666 addetti romani.

Esatto. E in agosto, nel frattempo, una società pubblica era entrata nell’azionariato di Almaviva do Brasil, e risorse fresche in cassa. Ora perché il governo non ha difeso i 1.666 licenziati? Senza contare che i lavoratori di Napoli hanno salvato il proprio posto dovendo rinunciare a tfr e scatti di anzianità. Chiediamo chiarimenti su questo rapporto tra una controllata dello Stato e una azienda che, con la mediazione del governo, ha licenziato 1.666 persone. E aggiungo che da poco Almaviva ha perfezionato la commessa Gse per 140 posti a Roma: riaprirà a breve una sede nella Capitale dopo che due mesi fa ha già messo alla porta 1.666 addetti?