I lavoratori in nero in Italia sono tre milioni, lo sostiene la Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato (Cgia) di Mestre. Il valore delle loro attività sarebbe pari a 102,5 miliardi di euro, cioè il 6,5% del Prodotto Interno Lordo (Pil). Ogni anno alle casse dello Stato verrebbero sottratti 43,7 miliardi di euro in gettito fiscale. Secondo la Cgia, la regione più colpita da questa «piaga» è la Calabria dove l’incidenza del lavoro irregolare su quello regolare è pari al 18,6%. I lavoratori impiegati nelle reti di questa attività sarebbero 181.100. Questa situazione si traduce in 1.375 euro di imposte evase ai danni di ciascun residente nella regione.

Al penultimo posto di questa classifica c’è la Basilicata dove i lavoratori irregolari sarebbero 45.600, «producono» il 14,7% del Pil «in nero» e sottraggono tasse per 1.174 euro all’anno. Più sopra c’è il Molise con 27 mila irregolari e un peso dell’economia sommersa rispetto a quella ufficiale pari al 14,6%. Le imposte non versate sono in questo caso pari a 1.282 euro. Quart’ultimo è il Veneto.

L’indagine della Cgia, condotta sui dati disponibili fino al 2011, rivela quali sono le categorie sociali più colpite dal lavoro irregolare. Ci sono i lavoratori dipendenti, costretti a fare un secondo lavoro perché il salario«ufficiale» non gli permette di arrivare alla fine del mese. Seguono i cassaintegrati e i pensionati che si affidano all’economia sommersa per integrare un reddito modesto.

Tra i lavoratori irregolari ci sono anche i disoccupati che nel mese di maggio sono arrivati a 3 milioni 140 mila a livello nazionale, in aumento dell’1,8% rispetto al mese precedente (+56 mila) e del 18,1% su base annua (+480 mila). «Chi ha perso il lavoro ha dovuto ricorrere a piccoli lavoretti per mandare avanti la famiglia – ha detto il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – Sia chiaro nessuno di noi vuole elogiare il lavoro nero spesso legato a doppio filo con forme inaccettabili di sfruttamento, precarietà e mancanza di sicurezza nei luoghi del lavoro. Tuttavia quando queste forme di irregolarità non sono legate ad attività riconducibili alle organizzazioni criminali, costituiscono un paracadute per molti disoccupati o pensionati che non riescono ad arrivare alla fine del mese». Questa situazione è presente nel Mezzogiorno dove, secondo Bortolussi, «possiamo affermare che il sommerso costituisce un vero e proprio ammortizzatore sociale».

Sembra di riascoltare le paroledel Viceministro dell’Economia Stefano Fassina secondo il quale in Italia esiste un’«evasione fiscale di sopravvivenza». Una constatazione che ha provocato uno tsunami nel Pd, e un forte risentimento nella Cgil. Bortolussi, invece, si era detto d’accordo con la constatazione di Fassina, dopo avere precisato che l’evasione è dovuta «anche ad un carico fiscale che ha raggiunto un livello non più sopportabile».

Secondo uno studio diffuso nei giorni scorsi da Confcommercio il sommerso economico rappresentava nel 2012-2013 il 17,4% del Pil italiano, una percentuale altissima rispetto alla maggior parte delle economie avanzate: in Messico l’evasione «vale» l’11,9% del Pil, il 9,5% in Spagna, negli Stati Uniti il 5,3%. Per Confcommercio questo record è dovuto ad una pressione fiscale effettiva che quest’anno si è attestata al 54%. La pressione fiscale apparente, calcolata in maniera prudenziale in base all’aumento dell’Imu e della Tares, ma non dell’Iva, è del 44% del Pil nel 2013. In 13 anni la pressione fiscale è cresciuta nel nostro paese del 2,7%, passando dal 41,9% al 44,6%. Un aumento superato nello stesso periodo solo dal Portogallo con un +3,2%.