Sembrerà paradossale, ma quando il 23 agosto 1926 muore Rodolfo Valentino, il celebre divo del muto, non si contano le scene deliranti di follia, gli svenimenti delle attrici che lo conoscevano, i suicidi di tante spettatrici che l’avevano visto soltanto sullo schermo nell’abbagliante luce del mito, sì tra le vedove in gramaglie idealmente c’è anche il diciottenne Cesare Pavese, che gli dedica il primo articolo di cinema. I suoi film si affidavano quasi esclusivamente al «bel corpo e al bel volto del divo», e «i suoi occhi e le sue labbra ardenti sono meravigliose». Ma era veramente un grande attore? «Non era che un bel giovane e robusto, un bell’innamorato, anche intelligentissimo se vogliamo, ma incapace di dare forza a un mondo un tantino vasto di profondità umana». Quale differenza con Buster Keaton, che non esita a definire «il miglior attore comico»: «In lui la maniera personale ed efficacissima d’interpretazione tiene la pari con lo stile ironico delle didascalie e con la profondità satirica delle sue geniali trovate». Se ha visto soltanto alcuni titoli – come L’amore attraverso i secoli e Accidenti che ospitalità! – gli sono bastati per cogliere le qualità del grande attore che inventa, dirige e interpreta i suoi film. Il più sorprendente è La palla n. 13 che giustamente considera «una spiritosa presa in giro dei romanzi polizieschi e del cinematografo in generale».

Nello stesso periodo scrive il primo soggetto, Un uomo da nulla, di cui abbozza una schematica suddivisione in scene. Il protagonista va in giro per la grande città (Torino?), su e giù nelle strade affollate del centro, dove vede passare sartine e cocottes, fino a inseguire un’attrice che sta uscendo dal teatro in mezzo a un codazzo di ammiratori, di cui è geloso. Nonostante la vicenda sia aggrovigliata se non confusa, vi si trovano non pochi spunti autobiografici e allusioni cinefile. Non è escluso che all’origine del soggetto ci sia Milly – destinata a diventare la stella della Za-Bum, inaugurando una lunga carriera internazionale, tra Italia e Usa – la soubrette che va allora raccogliendo a Torino i suoi primi successi. Aveva esordito all’Odeon nel dicembre 1926 per diventare già nel gennaio successivo la protagonista di Fascino d’oro, la rivista di Riff e Bel Ami, che resta in scena fino a marzo e riprende nell’estate. Cesare l’aveva vista a teatro e se n’era invaghito. Nella lettera del 12 luglio 1927 a Tullio Pinelli – avvocato, autore drammatico, grande sceneggiatore – gli dice tra l’altro: «È tornata la mia ballerina. È più bella, giovane, meravigliosa che mai. Ho trovato finalmente qual è il suo fascino unico a ballare sul palcoscenico. Una dolcezza, una leggerezza infantile piena di una grazia terribile, che mai, mai prima ho trovato nella mia vita». E nel post-scriptum aggiunge: «Ieri notte, uscito dal teatro dove l’ho rivista (stavo per impazzire, se non lo sono già!) son tornato sulla stradale di Reaglie e per la stradale e per i boschi fino a Chieri quasi, ho errato tutta la notte come un lupo. Ridivento barbaro». Ma già nel marzo ‘27 aveva vinto la sua timidezza e le aveva scritto: «Certo signorina non potrà non stupirla, per non dir peggio, questa lettera di una persona che lei non conosce affatto. Io non sono che un comunissimo studente di diciannove anni e lei è lontana, tanto lontana. Come avrei potuto avvicinarla, qua in Torino? Sempre in compagnia la trovavo e sarebbe stato ridicolo. Del resto, anche se avessi potuto incontrarla sola, sarei stato confuso nel numero dei soliti ‘cacciatori’ e tutto sarebbe finito. Questo mi spaventava e non osavo. E così per il timore di sciuparla, di sciupare l’immagine di lei che ho negli occhi, l’ho forse perduta senza riparo. Ma non son riuscito a dimenticarla, quando fu partita. E allora cercando per tutti i giornali l’ho finalmente ritrovata a Roma. Se non son riuscito che a farla ridere, signorina, mi getti in un angolo e sarà finita, ma se almeno un briciolo di quel che provo l’ho espresso, e lei l’ha compreso, allora non mi lasci in questo dubbio. È una speranza folle, ma pure una sua risposta benevola sarebbe tutta la mia gioia. Tante cose avrò da dirle se lei sarà tanto buona da ascoltarmi. Vuole signorina?».

Scritti sul cinema
Tra la fine dei venti e l’inizio dei trenta, i tentativi saggistici del giovane Pavese, deciso a misurarsi con il cinema, si moltiplicano. L’intervento più interessante è Di un nuovo tipo di esteta, che polemizza con l’iniziativa di «Cinema d’eccezione», i cui manifesti avevano tappezzato il centro di Torino. Scomparso il tono pedante (velleitario?) degli abbozzi teorici, l’articolo è vivacissimo e rivelatore. Ma curiosamente nessuno ha riconosciuto il bersaglio polemico che è addirittura Giacomo Debenedetti, il grande critico letterario. Classe 1901, Giacomo ha sette anni più di Cesare, è da poco collaboratore alla «Gazzetta del Popolo» di Torino con cronache culturali, senza escludere qualche incursione nel teatro e nel cinema. Il «Cinema d’eccezione», contro cui si scaglia Pavese, è un pionieristico tentativo di cinema d’essai che si inaugura alla fine del dicembre 1928. La formula del «film d’eccezione» a Pavese sembra legata alle discussioni sull’arte del cinema – è arte, non è arte – tipica di una fase ormai superata, che ignora il carattere schiettamente popolare del nuovo mezzo, «un’arte da folla», di cui il cinema americano è l’espressione più tipica. La svolta dell’intervento è quando abbandona la polemica personale per entrare nell’autobiografia e cioè per fare l’elogio delle salette di periferia – il Minerva, l’Odeon, lo Splendor, il Meridiano, lo Statuto, l’Alpi e l’Ideal – che preferisce alle grandi sale di via Roma come l’Ambrosio, il Ghersi, il Bossa e l’Italia: «Quando ho cominciato a frequentare cinemini da due lire e anche meno, mi sono accorto, ad un certo punto, che gli schermi un tantino maculati dei locali in questione sono gli altari dove si celebrano feste d’arte, inaudite in luoghi meno popolari. Una quantità di filmetti giudicati di scarto perché non forniti di un nome famoso d’attore o non rappresentanti eccezioni artistiche, passa in quelle traballanti macchine di proiezione. E ci sono capolavori dei più schietti». È in queste sale più modeste che si vedono i filmetti americani affidati a una serie di attrici minori come Janet Gaynor, Sue Carol, Olive Borden, e tra gli uomini oltre a George O’ Brien, James Farrell, William Haynes, e tra i più noti Wallace Beery e George Raft. Il mito del cinema americano, miniera di modelli di comportamento e di stili di vita, nasce qui nelle sale popolari, dove una generazione si ribella alla retorica dell’epoca.

Se sfogliamo la raccolta delle lettere di Pavese, pubblicata postuma – attraverso le quali si impongono con particolare vivacità le varie fasi della vita dello scrittore, del traduttore, del consulente editoriale – il nuovo appuntamento con il cinema coincide con la lettera del 15 marzo 1948 a Carlo Musso, attivissimo sceneggiatore che lavora a Roma alla Lux, con Carlo Ponti e Dino de Laurentiis, i producer più importanti della casa di Riccardo Gualino. È Ponti che sarebbe interessato a dei film d’ambientazione piemontese, regionali ma non folcloristici. Alla richiesta dell’amico di proporgli spunti e idee, Pavese risponde con una lunga lettera che contiene un vero e proprio soggetto già compiutamente elaborato.

Scritti per il cinema
È la storia di Pero, il figlio del traghettatore di Ponte Stura, vicino a Casale Monferrato, che traghetta mondariso, commercianti, operai. Sin da ragazzo dà una mano al padre nel lavoro. Silenzioso, individualista, non si fa coinvolgere nelle risse dei coetanei. Quando il padre muore, diventa il traghettatore. Si sposa con Marisa. Nella confusione successiva all’8 settembre, gli chiedono di traghettare un gruppo di clandestini. Ancora una volta non vuole farsi coinvolgere. Sarà Marisa a farlo al suo posto. Ma nella traversata dei clandestini, inseguiti dai colpi di mitra dei tedeschi, Marisa viene colpita e muore. Pero giura di vendicarla. Il suo atteggiamento di distacco è cambiato, e questa volta agirà insieme con i suoi compagni. Il soggetto non dispiace a Carlo Musso. Se ne parla in più di una lettera, aggiustando qualche particolare e definendo meglio alcune situazioni, in attesa di un incontro con Carlo Ponti, che è impegnato nei sopralluoghi di Il mulino del Po di Lattuada. Ma come succede spesso nel mondo approssimativo e volubile del cinema (italiano?) il progetto si perderà per strada e resterà irrealizzato.

Nello stesso anno arrivano in Italia due attrici americane, le sorelle Constance e Doris Dowling, venticinque e ventisette anni, decise a trovare a Cinecittà l’affermazione che non hanno avuto a Hollywood. Scritturata da Samuel Goldwyn, Connie in Usa appare senza successo in tre, quattro film. Più fortunata, Doris si è fatta notare in un paio di particine di fianco in due film importanti come l’alcolico Giorni perduti di Billy Wilder e il chandleriano La dalia azzurra di George Marshall. In Italia le due americane non riescono a sfondare, anche se Doris è una delle protagoniste di Riso amaro di Giuseppe De Santis. Appare anche in Alina di Giorgio Pastina, tra Amedeo Nazzari e Gina Lollobrigida, e in Cuori sul mare, tra Marcello Mastroianni e Sofia Scicolone non ancora Loren. Connie partecipa a quattro film qualsiasi – Follie per l’opera di Mario Costa, La città dolente di Mario Bonnard, Duello senza onore di Camillo Mastrocinque, Miss Italia di Duilio Coletti, il meno peggio – prima di diventare protagonista di La strada finisce sul fiume, mediocre B movie di Luigi Capuano.

Se fosse andato nella tenuta di Veneria di Lignana sul set di Riso amaro, dove Connie era stata un paio di giorni con Doris – ma «l’Unità» vi manda invece Italo Calvino, folgorato dalla bellezza botticelliana di Silvana Mangano – si sarebbero conosciuti prima. L’incontro di Cesare con Constance avviene a Roma nel capodanno del ’50, in casa di Alda Grimaldi, una delle prime registe televisive e del marito Giovanni Rubino. È il colpo di fulmine, almeno per lui. La prima lettera è del 17 marzo 1950: «Cara Connie, volevo fare l’uomo forte e non scriverti subito ma a che servirebbe? Sarebbe soltanto una posa. Ti amo. Cara Connie, di questa parola so tutto il peso – e l’orrore e la meraviglia – eppure te lo dico, quasi con tranquillità. L’ho usata assai poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me. Sto lavorando per te». Nella lettera del 19 marzo le invia Le due sorelle, uno dei soggetti promessi: «Cara Connie, a me pare di aver tenuto conto del tipo e delle possibilità di entrambe. E mi pare anche di avergli dato uno sfondo e un significato da cui potrebbe nascere una bella cosa, molto recitata e ricamata. Resta naturalmente da fare tutto il lavoro di dialogo e di trovate, di passaggi e di tipi, ma non sarà difficile. Per il dialogo, sono uno dei maestri riconosciuti del genere (!), per la sintassi cinematografica non ne so nulla ma con la volontà si arriva a tutto. Ho imparato nella vita a fare il traduttore, il poeta, il critico, il narratore, il correttore di bozze, il consulente editoriale, l’insegnante, tutte cose che vent’anni fa non sapevo. Posso imparare a fare anche questo».

Nuova energia
Se si leggono i sette soggetti di quella prodigiosa e disperata primavera del ’50 si scopre nello scrittore, nella sua volontà di sperimentarsi nel mestiere di soggettista, una nuova energia. Sarebbe eccessivo dire che i soggetti sono tutti molto belli e compiuti perché in realtà si tratta di tracce di un lavoro in corso. Ma quello che sorprende è la varietà degli argomenti scelti e delle ipotesi narrative. Un nuovo Pavese? Le due sorelle è la storia di una sorella maggiore che vede con gelosia la minore innamorarsi del proprio uomo. Sullo sfondo di tre diversi ambienti (la grande città, la cittadina di riviera, la città di provincia) il soggetto punta sulla diversità di caratteri delle sorelle che interagiscono con le presenze più o meno occasionali dei personaggi di sfondo. L’autista conteso, ambientato nella ricca borghesia romana vista nella sua fatua ricerca del piacere, è una commedia di battute e di colpi di scena giocata sul filo del paradosso. Gli innocenti è quasi un noir ambientato a Alassio con morti ammazzati e inseguimenti in auto nel bel mondo delle famiglie altoborghesi. Amore amaro è un’altra storia di due sorelle, la trentenne Natalia, vissuta, stanca. La giovanissima Cloti non ha ancora finito di studiare. Vivono nello stesso appartamento, dove a un certo punto si stabilisce anche Claudio. La tensione e l’angoscia nascono proprio dalla convivenza e dai rapporti sentimentali dell’uomo con le due donne. Suicidarsi è un vizio, e cioè l’alta borghesia disoccupata, oziosa, non sa far altro che suicidarsi, non ha più ragioni per vivere. Un grottesco? La donna del teatro racconta la scalata di una soubrette d’avanspettacolo verso il palcoscenico delle compagnie maggiori, sospesa tra illusioni e delusioni, speranze e frustrazioni. Il serpente e la colomba è l’amara storia di un degrado maschile. I due protagonisti sono Luigi e Linda. Luigi è un quarantenne sarcastico con bonomia che a un certo punto scopre di essere innamorato dell’ambiguità di Linda. Ma è proprio lei che cerca di staccarlo da sé per salvarlo.

L’amore per De Sica
Cesare sollecita i suggerimenti delle due attrici. Ma non appena Constance ritorna in America, è con Doris che lo scrittore si consiglia. Il serpente e la colomba è il soggetto più complesso e ambizioso per il quale vorrebbe come regista addirittura Vittorio De Sica che nella celebre intervista radiofonica di qualche mese dopo indicherà come il maggior narratore italiano contemporaneo. Nella lettera del 1° giugno a Doris scrive: «Ho tenuto tutto il soggetto in uno sfondo sbiadito di caffè, pensioni, negozi, vie cittadine, interni borghesi per lasciare a De Sica tutte le sue opportunità. Egli ‘deve’ vedere in questo film l’occasione per cantare la sua vecchia canzone: deve riscoprire la ‘realtà’ umile umile orrido-tenera che egli sempre cerca». Ma, nonostante tutti i tentativi, De Sica non risponde. Il soggetto resterà tra le carte dello scrittore a testimonianza di un nuovo mestiere avviato ma non concluso.

Il 24 giugno, alla consegna del Premio Strega per La luna e i falò, Pavese va con Doris, alla quale è grato per la complicità con cui gli è stata vicina nell’avventura dei soggetti. Siamo ormai agli ultimi mesi. Se si sfogliano le pagine finali di Il mestiere di vivere, si direbbe che il tempo è scaduto: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Tra le ultime lettere, quella indirizzata all’amico Davide Lajolo ricorda da vicino gli studi antropologici della collana viola di Einaudi a cui teneva molto: «Visto che dei miei amori si parla dalle Alpi a Capo Passero, ti dirò soltanto che, come Cortez, mi sono bruciato dietro le navi. Non so se troverò il tesoro di Montezuma, ma so che nell’altipiano di Tenochtitlán si fanno sacrifici umani. Da molti anni non pensavo più a queste cose, scrivevo. Ora non scriverò più! Con la stessa testardaggine, con la stessa stoica volontà delle Langhe, farò il mio viaggio nel regno dei morti».