Un paragrafo di La mostra delle atrocità, di James Graham Ballard, mostra questo titolino sorprendente: Il matrimonio tra Freud e Euclide. Tutto il libro è del resto un bizzarro tentativo di utilizzare il linguaggio della geometria per dare conto dello «spazio» delle psicosi, in particolare di quelle che hanno a che fare con l’erotismo e con il sangue, con le amputazioni e con le morti truculente. Più o meno negli stessi anni in cui Ballard concepiva La mostra delle atrocità, Jacques Lacan avviava una particolare rilettura di Freud, facendo uso degli strumenti della matematica, della topologia e della linguistica strutturale; sembrava un azzardo, perché nel corpus freudiano non si danno tracce di questi saperi speciali.

È dunque di qualche interesse ricordare come la fondazione della psicoanalisi italiana abbia in qualche modo conosciuto analoghi percorsi: ce lo ricorda – a cent’anni dalla redazione – la tesi di laurea di Cesare Musatti, Geometrie non euclidee e problema della conoscenza (Mimesis, pp. 539, € 28,00) tornata alla luce grazie al lavoro di Aurelio Molaro, che ne ha curato l’informatissima introduzione.

Secondo quali passaggi, dunque, Musatti arriva alla psicoanalisi? È la stessa introduzione alla tesi, a ricordarlo: un interesse particolare, negli anni del liceo, per la matematica e la filosofia; l’indecisione tra i due campi del sapere, al momento di iscriversi all’università; il momentaneo prevalere della matematica, cui fa poi seguito (dopo appena un anno) il ritorno alla filosofia; la parentesi della guerra, dove la geometria è lo spazio «attraverso cui si getta la morte», ma anche quello «assolutamente teoretico» che «si riduce ad un complesso di formule della simbolistica geometria».

Qui, nella guerra, l’attitudine teorica di Musatti comincia a investire i grandi problemi «della vita e della morte, dell’agire e del conoscere», senza rinunciare a interrogarsi sulle condizioni stesse del pensiero, sui dati dell’esperienza immediata e sui limiti della ragione. Trent’anni dopo, Musatti avrebbe ancora annotato: «non solo la geometria appare indispensabile per una rappresentazione scientifica del mondo fisico, ma anche per una rappresentazione scientifica del mondo interiore. Giusto è pertanto che anche lo psicologo, nelle questioni riguardanti i fondamenti della geometria, cerchi possibilmente di sentirsi a casa».

Quando Musatti era ancora incerto sul suo percorso, l’Università di Padova poteva vantare una tradizione di vera eccellenza, nel campo della matematica: Gregorio Ricci Curbastro, Giuseppe Veronese, Francesco Severi e Tullio Levi-Civita avevano costruito una scuola unica al mondo, mettendo a disposizione le tecniche formali più idonee per lavorare su spazi geometrici non euclidei e per concepire la possibilità di una fisica post-newtoniana. Proprio nel passaggio tra il liceo e l’università, grazie alle amicizie del padre – allora parlamentare – Musatti aveva avuto l’opportunità di conoscere e conversare, nel parco romano del Pincio, con un altro gigante del pensiero scientifico: Federigo Enriques, appena reduce da uno scontro con Benedetto Croce, a proposito del valore della scienza e del contributo che la scienza può portare alla filosofia. E nelle settimane in cui avrebbe discusso la sua tesi, a Musatti accadde un altro fatto singolare: per la sua conoscenza del tedesco, fu scelto per accogliere Albert Einstein in visita all’università di Padova, nell’autunno del 1921, e accompagnarlo sottobraccio, per le scale dell’aula in cui Einstein avrebbe tenuto la sua prolusione.

Che dire, a un secolo di distanza, del contenuto specifico della tesi? Musatti affronta due ordini di problemi: quello dell’eredità kantiana (in particolare la tesi dello spazio come intuizione pura) e quello della forma geometrica dello spazio fisico (e della possibilità di determinarla sperimentalmente). Con due riferimenti principali: uno scritto giovanile di Bertrand Russell, sui fondamenti della geometria (il cui scopo è salvaguardare qualche principio a priori, come condizione di ogni esperienza spaziale) e l’impostazione di Jules-Henri Poincaré, circa l’equivalenza formale tra sistemi diversi di geometria, nella descrizione del mondo fisico.

Dopo la «rivoluzione» della relatività generale, Russell ebbe più volte occasione di disconoscere quello scritto giovanile: l’esposizione più organica del suo pensiero – a questo proposito – si trova nella Storia della filosofia occidentale, concepita negli anni della Seconda Guerra mondiale. La critica alla tesi che sia dia qualcosa a priori, come condizione stessa della conoscenza spaziale, ruota per Russell intorno all’idea che la coerenza delle nostre percezioni spaziali (il fatto che, per esempio, noi vediamo sempre il naso tra gli occhi e la bocca, guardando il volto di qualcuno) richiede che lo spazio soggettivo delle nostre percezioni sia in qualche modo guidato da quello oggettivo, e abbia dunque una controparte nel mondo fisico; e che, quindi, lo spazio che rende possibili le nostre esperienze spaziali non possa darsi a priori. Naturalmente, si può dissentire: e fa bene Molaro, nella sua introduzione, a ricordare quale sia stato ad esempio il contributo di Ernst Cassirer, a questo stesso proposito.
Più datata, semmai, è l’idea che le geometrie possibili (euclidee e non euclidee) siano in definitiva equivalenti tra loro, quanto alla descrizione del mondo fisico.

Questa tesi ha avuto seguaci in buona parte del Novecento, grazie soprattutto ai contributi di Hans Reichenbach e di Adolf Grünbaum. Però, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, studi formali più accurati – sui principi e sulla matematica che governano la relatività generale – hanno mostrato che un’equivalenza del genere non si dà: la scelta di una certa struttura geometrica, piuttosto che di altre, è vincolata da assunzioni teoriche (per esempio: dalla definizione di «simultaneità», o di «relazione causale») e da «buone» ragioni metodologiche.

Di più: nelle formulazioni più recenti della relatività generale lo spazio-tempo (la kantiana «intuizione pura», condizione stessa della sensibilità) non gioca alcun ruolo essenziale: gli stati dell’universo sono specificati dagli oggetti fisici, dai campi e dalle loro relazioni; la «localizzazione» spazio-temporale degli enti fisici è priva di rilievo teorico. Non sono invece irrilevanti le relazioni tra le entità fisiche che costituiscono l’universo; e, siccome queste relazioni producono effetti osservabili, non è vero che la struttura dell’universo fisico non sia passibile di controlli empirici.

Con questo, se da una parte è verosimile – in linea con le tesi di Poincaré – che lo spazio-tempo non sia una «cosa» (e non sia pertanto osservabile), risulta anche vacua la tesi secondo la quale «la geometria non ha nulla da temere da nuove esperienze» (come lo stesso Poincaré ebbe a scrivere): sarebbe più congruo concludere che nuove esperienze (e nuove teorie) sono state in grado di produrre a tutt’oggi una sorta di «evaporazione» della geometria (o, meglio, dello spazio-tempo). Sino a prova contraria, s’intende.