Bastarono poche parole, con regi decreti-legge emanati tra settembre e novembre del 1938 e convertiti in legge l’anno dopo, a segnare la sorte degli italiani oggetto dei provvedimenti «per la difesa della razza nella scuola fascista». Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della nazione re d’Italia e imperatore d’Etiopia, manifestò tra l’altro «la necessità urgente ed assoluta di provvedere» a che nessun professore di «razza» ebraica contaminasse le scuole e gli atenei del suo regno. Così fu. L’applicazione delle leggi fu zelante, auspice il ministro Bottai (presunto «frondista»). Da alcuni anni, la ricerca su questo passaggio della storia italiana è specialmente intensa. Oggi la vicenda delle istituzioni e dei singoli è meglio nota: molti atenei hanno promosso iniziative per ricostruire e documentare gli eventi. Oltre ai drammi individuali, è progressivamente emerso l’impatto delle leggi razziste su singoli settori. Agli studi sul mondo antico fu dedicato un convegno tenuto a Parma nel novembre 2018, i cui atti appaiono ora a stampa: Antichistica italiana e leggi razziali, a cura di Alessandro Pagliara (Athenaeum Edizioni Universitarie, pp. IX-247, € 28,00).
Il fascismo pose molta enfasi sulla «romanità». Fosse posticcia o meno, questa ideologia coinvolse gli antichisti: storici, archeologi, latinisti ebbero (per l’ultima volta) un ruolo pubblico, talora politico. Per alcuni di essi, un brusco risveglio venne con la legislazione del 1938: «italiano» ed «ebreo» divennero condizioni incompatibili. Cattedratici e direttori di istituti furono celermente dispensati dal servizio: vennero interrotte le ricerche, sospese le pubblicazioni. Non mancarono zelanti elogiatori dell’insperata «pulizia», che liberava posti e prebende. Ne seguì una frattura. Per valutarne l’impatto, possono servire le parole dello storico Arnaldo Momigliano (1908-1987), vittima egli stesso di quei provvedimenti: «Il vero male fatto dal Fascismo agli studi di storia antica non sta nelle sciocchezze che si dissero, ma nei pensieri che non furono più pensati». Lo stesso Momigliano, anni dopo segnalò la «perdita del potenziale di intelligenza e di esperienza» che le leggi razziste avevano provocato, prima di divenire la premessa o il prologo delle deportazioni nazifasciste nel 1943-’45.
Le «sciocchezze» erano state le frasi su Cesare «prima camicia nera», i ragionamenti su Augusto modello di Mussolini, le asserite continuità tra il ruolo mediterraneo di Roma contro Cartagine e quello dell’Italia contro l’Inghilterra, e altre. Momigliano, scrivendo nel 1945, le ritenne irrilevanti, nei casi in cui la «scienza» non era stata offesa. Forse era necessario parlare così, in quel momento: troppo vasta la contaminazione, e troppi gli studiosi variamente compromessi. Ma non c’erano state solo esteriori adulazioni al duce: tra le «sciocchezze» figuravano anche le invettive o i pensieri antisemiti. Molto si ragionò circa le origini «ebraiche» di questa o quella figura antica: toccò anche a Orazio. Certo, valutare le distorsioni che il fascismo razzista indusse negli studi non è facile. Che cosa sia accaduto in Germania lo ha spiegato Il nazismo e l’Antichità di Johann Chapoutot (Einaudi 2017). Per l’Italia, molto dipende dall’osservatorio adottato. I relatori al convegno di Parma si sono soffermati su alcuni casi di studio. Per esempio, l’Istituto di Studi Romani, sorto nel 1925 in Roma (e tuttora esistente), con sezioni locali a Torino, Milano, Bolzano, Genova, Bologna, Napoli, Potenza, Bari, Catania, Cagliari. A questa istituzione largamente integrata al regime anche Momigliano collaborò, con fervore operoso, fino al settembre 1938: ma dovette soccombere quando prevalse l’allineamento ideologico al razzismo.
Altro aspetto è la cacciata dalle Università: un trauma per i coinvolti, un’opportunità per chi ne trasse vantaggio. Le conseguenze furono varie. Lo mostrano le scelte differenti del matematico Vito Volterra e del figlio Edoardo, studioso di diritto romano: nel 1931 quest’ultimo prestò giuramento al fascismo, a differenza del padre e non senza tormento, ma nel ’38 fu egli pure colpito dalle leggi razziste. Nel dopoguerra biasimò i cedimenti morali indotti dal fascismo, ma mostrò gratitudine verso chi, da posizione protetta, in qualche modo l’aveva aiutato. Ecco emergere le «grandi contraddizioni che animarono le microstorie dell’Italia fascista, soprattutto al tempo del suo collasso» (p. 123). Linee confuse, sì, persino quando l’esito fu drammatico. L’epigrafista Mario Segre (1904-1944), finì tradito, deportato e trucidato insieme a moglie e figlia. Aveva lavorato a lungo nel Dodecaneso, sotto Mario Lago e poi Cesare De Vecchi. Abilmente guidata da Alessandro Della Seta (egli pure travolto dal razzismo), l’archeologia italiana nell’Egeo aveva profittato della convergenza tra politica e ricerca. Con ambiguità tutta italica, Segre decadde dalla libera docenza ma poté restare in Egeo per proseguire, fino allo scoppio della guerra, le sue importanti ricerche, rimaste tuttavia tronche.
Differente, e complessa, la vicenda di Mario Attilio Levi (1902-1998), storico dal peculiare percorso politico e accademico. Attivo già nella Torino postbellica, squadrista antemarcia, professore di Storia antica, fu autore di importanti studi sulla tarda Repubblica romana e su Ottaviano. Vicino al fascismo «monarchico» locale, ma talvolta contestato in ambienti di partito, decadde dalla cattedra nel ’38. Tuttavia poté contribuire, sotto pseudonimo, a un volume per il bimillenario augusteo, in compagnia di noti flàmini del fascismo, come Roberto Paribeni e Carlo Anti. Riuscì a collaborare fino a guerra inoltrata con l’Istituto di Studi di Politica Internazionale di Milano, pubblicando lavori anche di tema politico, tuttavia leali al regime. Ma dopo la caduta del fascismo combatté da «badogliano» con gli Alleati, per il riscatto d’Italia. Tornato all’insegnamento, animò a Milano vivaci iniziative, operoso fino a tarda età. Alla sua parabola così varia spetta nel volume uno studio meritatamente ampio.
Sul bilancio del razzismo fascista pesano anche molte storie di segregazione (l’esclusione dalle biblioteche!) e di esilio. Circa i docenti cacciati per ragioni razziste nel ’38, il legislatore deliberò con caratteristica incoerenza, scegliendo in forma umiliante di riammetterli in soprannumero, su «posti di ruolo istituiti transitoriamente». Il numero di antichisti coinvolti non fu alto: alcuni non ripresero mai la cattedra, perché deceduti o perché rimasti in esilio. I rientri ebbero esiti vari. L’etruscologo Neppi Modona ottenne la revisione di passati concorsi e un risarcimento del danno subito. A Levi toccò invece, dopo la persecuzione, un procedimento di epurazione, poi risoltosi favorevolmente: non si arrivò così all’esito drammatico cui s’indusse invece lo scienziato Tullio Terni.
Quanto pesò in definitiva la frattura indotta dalla legislazione razzista? Sul piano scientifico, molte ricerche rimasero interrotte: la pubblicazione nel 1993 dell’incompleto lavoro di Segre sulle iscrizioni greche di Coo non ha risarcito il guasto. In altri casi, al trauma si unì la frattura culturale dovuta alla guerra: il ragionamento di Momigliano su «libertà e pace» non trovò esito, quando fu faticosamente ripreso nell’esilio. Sul piano delle esistenze, non basta dolersi dei «pensieri che non furono più pensati». Come notò Momigliano, «molti dei migliori, se non dissero nulla che non andava detto, non dissero tutto quello che avrebbero potuto dire». Non fu solo un silenzio, o un venir meno. I pensieri rimossi furono sostituiti da altri pensieri, i quali si tradussero in fatti e conseguenze irreversibili. Alcuni individui, certo, furono più compromessi, ma forse nemmeno i chierici asserragliati nella ricerca «pura» possono considerarsi assolti da ogni responsabilità.