Sorprende piacevolmente l’esordio nel lungometraggio di Jonas Govaerts. Pur giocando la carta dell’horror survivalista ed evidenziando con grande piacere i propri modelli di riferimento, il regista costruisce con acume e notevole ingegno visivo una parabola etica intrecciata in un crudele romanzo di formazione al contrario. Innestandosi nell’ineludibile modello de Il signore delle mosche, pur muovendo da premesse opposte, il film mette in scena, a tratti in forme addirittura didascaliche, il crollo verticale del sistema educativo degli adulti. Non a caso il modello di comunità alternativa degli scout lupacchiotti è trattato alla stregua di una organizzazione marziale in minore che riproduce, in scala, le medesime crudeltà e aberrazioni gerarchiche delle organizzazioni militari degli adulti.

Cub, con notevole acume politico, mette in luce l’erosione dei vincoli solidali tra i giovanissimi come conseguenza diretta del collasso etico del sistema valoriale degli adulti. Il conseguente utilizzo da parte di Govaerts di metafore maiuscole serve quindi a evidenziare il precipitato pedagogico di un racconto che, pur senza riferirsi direttamente a Narciso Ibanez Serrador, si chiede Ma come si può uccidere un bambino? Il bosco nel quale alcuni operai licenziati hanno scelto di impiccarsi offre l’immagine agghiacciante di una fortezza Europa incapace di affrontare il passaggio da una società industriale a una nella quale il lavoro è redistribuito e ripensato, diventando così il segno di un cuore di tenebra nel quale la storia rischia tristemente di ripetersi.

E la foresta trasformata in una luna park di trappole mortali riciclando l’idea della catena di montaggio non è affatto male. In maniera più attenta rispetto a Michael J. Bassett e al suo pur interessante Wilderness, Cub giocando con macroriferimenti quali il cinema di Tobe Hooper e le favole nere dei fratelli Grimm (modelli tra loro vicini più di quanto non si possa sospettare) mette in scena un crudele racconto dell’infanzia. Film horror sui generis che osa raccontare dei bambini non normativizzati e che si concede lussi narrativi che l’attuale politicamente corretto non contempla rischiare, Cub procede progressivamente verso una brutale derealizzazione delle sue premesse per giungere a un finale forse prevedibile ma comunque disturbante che sfida lo spettatore a individuare una speranza residua nella più disperante delle situazioni.

Cub, in questo senso, è una rigenerante boccata d’ossigeno. Senza lesinare in crudeltà, Govaerts affronta l’horror dal suo versante più schiettamente politico proprio per dire (contenutiscamente, proprio…) delle cose. Il risultato è disturbante e inventivo; un racconto morale che pur bilanciando con notevole senso dell’economia tensioni e momenti di crudeltà, riesce a insinuare un malessere autentico. Ammirevole poi l’attento l’equilibrio fra il contesto realistico e il coefficiente inarrestabile di trovate schiettamente orrorifiche.

In questo modo Goaverts risulta sempre credibile anche quando il suo racconto imbocca la tangenziale dell’iperbole, diretta conseguenza dell’approccio metaforico. Che un film come Cub sia stato realizzato in Belgio offre motivi di speranza in direzione di un cinema europeo meno normativo e igienizzato. Prematuro dire se sia sorto un nuovo Fabrice Du Welz. Sperare che Govaerts continui anche in futuro a esprimersi a simili livelli, limando le poche incertezze di questo esordio, però è assolutamente legittimo. Così come lo è sperare che anche altre cinematografie europee (Italia?) accolgano l’indicazione di un film fuori schema come Cub – Piccole prede.