L’enfasi su un’Italia in forte crescita continua. I dati previsti per il 2021 sono migliori delle attese, tanto che la crescita acquisita al 30 giugno ha quasi raggiunto gli obiettivi previsti a fine anno, lasciando presagire che il dato finale sarà ben superiore a quello atteso. Accadimento raro per la nostra economia. L’aumento del Pil previsto a +5,6% viene paragonato niente meno a quello che si registrava negli anni Settanta. Viene sottolineato il fatto che siamo primi in Europa. Marco Fortis azzarda persino che la Germania sarebbe diventata il fanalino di coda in Europa. Tale impostazione esclude l’effetto rimbalzo rispetto al 2020, in cui Italia e Spagna sono crollate di più degli altri paesi e quindi oggi si prevede crescano maggiormente, e esclude che questo rimbalzo possa essere ascritto anche a una decisa politica di spesa in deficit su scala nazionale, dunque ancor prima che intervengano piani continentali di sostegno (PNRR).

Fortis individua il traino dell’economia italiana in un paio di fattori. Il primo è il buon momento dell’edilizia, sebbene anche in questo caso andrebbe considerato un certo effetto rimbalzo rispetto al crollo ormai decennale del settore oltre al sostegno pubblico del 110%. Il secondo è la ripresa del manifatturiero trascinato dalle esportazioni. Qui ci sarebbe il dato strutturale. Secondo Fortis dal 2015 è in corso un processo che ci farebbe superare Germania e Francia per “crescita della produzione industriale, della produttività e dell’export”. In questi anni, a partire dall’industria 4.0, una serie di politiche economiche avrebbero favorito l’impresa e la crescita, facendoci sobbalzare al quarto posto per avanzi commerciali con l’estero dopo Cina, Germania e Russia.

Questa lettura appare piuttosto precipitosa. I dati largamente diffusi in questi anni hanno descritto un’Italia con una produttività stagnante, fanalino di coda per investimenti pubblici e privati, per Ricerca & Sviluppo, con spese al di sotto della media in istruzione. Un’industria eccessivamente medio-piccola e sbilanciata su segmenti a modesta specializzazione e in difficoltà per via della competizione internazionale. Le quote di mercato sull’export globale per l’Italia sono stabili al 2,9% perlomeno dal 2011, mentre tra i paesi che vedono aumentare le loro quote ci sono Cina, Svizzera e Vietnam. Certo Germania e Francia perdono qualche decimale, ma si attestano su quote sempre superiori. Nel suo ultimo libro Gustavo Piga, riferendosi al 2019 compreso, evidenzia come «l’Italia di oggi non riesce a trovare al suo interno, le forze intellettuali, di manodopera e di ore macchina per produrre e, dunque, creare occupazione ai livelli di solo 13 anni prima», cioè il 2005 che a sua volta era stato inferiore al picco raggiunto nel 2007.

Per non parlare del declino demografico. Tutti fattori strutturali per un’economia. Un mix che vincola a una crescita di lungo periodo del Pil largamente inferiore alla gran parte di paesi europei. Il presidente della Banca d’Italia, Ignazio Visco, circa un anno fa spiegava come il crollo dei primi sei mesi del 2020, dovuto al Covid, riportava l’economia italiana al 1993, mentre negli Usa si tornava al 2014, in Germania al 2010, in Francia e Spagna al 2002. La differenza era dovuta alla precedente «crescita più robusta» negli altri paesi. Tale molteplicità di zavorre, che non sembrano in via di superamento in questi ultimissimi anni, spiega il declino italiano a partire dagli anni Novanta. Certamente la ripresa globale consentirà la ripartenza delle nostre esportazioni, e in termini assoluti le esportazioni aumenteranno, ma tornare a credere che l’Italia possa vivere attraverso l’export sembra difficile. La Commissione europea afferma che in Italia solo 2,7 milioni di occupati è dedita all’export, il 13% della forza lavoro. Troppo poco per pensare che siano un volano per un economia complessa di un paese di 60 milioni di abitanti. Siamo ancora lontani da un nuovo miracolo economico.