La guerra di Troia, che durante le prime classi ginnasiali si studia nell’Iliade, è storia e leggenda. Intorno ai 13 anni di età, concentratissimi a seguire con occhi meravigliati e braccia conserte sui banchi le affabulazioni del professore di lettere, il poema di Omero ci appariva come una trama da giornaletti che trovavamo all’edicola.

Le battaglie con le bighe, l’assedio delle mura, i duelli con le armature, erano ambientazioni avvincenti (di meno quelle del “De bello gallico” e del “De bello civili” di Cesare, che poi bisognava tradurre) in quella scuola, umanistica e classista, praticata fino alla riforma della media unificata del 1963 che aprì alla scolarizzazione di massa.

Benchè cominciassimo a familiarizzare con i classici, i nomi riferiti ai luoghi omerici risuonavano estremi (l’Ellesponto, le porte Scee, il fiume Scamandro, l’isola Tenedus, il monte Olimpo), finendo per smarrirci fra imprese degli eroi (Achille, Ettore, Aiace, Diomede, Agamennone) e degli dei (Febo Apollo, Poseidone, Afrodite, Pallade Atena, Ares) che affollavano quegli scenari. Le loro vicende, attraverso le raffigurazioni dei testi scolastici, sono rimaste a lungo impresse nella memoria, almeno quanto la durata della guerra di Troia.

Dieci anni dopo infatti, in un viaggio formativo tipo “on the road”, allora in voga, arrivammo in Asia Minore, fra i resti della città-stato che nella Turchia attuale è chiamata Truva (Troia appunto). Era l’anno che precedeva l’invasione turca di Cipro, sotto il governo di Ecevit.

L’unica emergenza costruttiva dei dintorni s’identificava con un manufatto in legno di richiamo turistico, sovradimensionato, la cui effige ha simboleggiato per millenni Troia: il cavallo. Grazie a un gigantesco cavallo dello stesso materiale Ulisse, come sappiamo, penetrò nella città e di notte ne causò la caduta.

Gli scavi archeologici, condotti nel secondo ottocento dal tedesco Schliemann, avevano fatto rinvenire bassi muretti di pietre a secco che un tempo erano stati possenti mura urbiche. Le fotografie da noi prese testimoniavano davvero poco di un luogo fin troppo idealizzato.

Ciò che conta è la fama. E certe città, punti fermi nella geografia del mondo, ne godono in modo imperituro. Troia è fra queste, anche se rientra, per dirla con Calvino, fra “le città nascoste”. La nostra meta finiva lì, quel giorno.

Dove avremmo potuto dormire a Troia? Non c’erano letti per viaggiatori, ci risposero con tono perentorio alla stazione di polizia turca della zona cui avevamo bussato. Per una notte ci saremmo adattati a ogni frangente. Una guardia venne incontro, a suo modo, alla nostra necessità. Spalancò una cella, l’unica, per fortuna vuota, e ci porse due coperte. Non ci chiese neanche i documenti. L’indomani però avremmo sloggiato di buon’ora, prima dell’arrivo dell’ufficiale. E figurarsi se c’era l’intenzione di restare!

Quella notte dormimmo di sasso. Poi, per attribuire un minimo di dignità alla nostra inopinata galera, realizzammo che magari avevamo consumato il sonno in un posto che poteva essere stato la reggia di Priamo, chissà. Di certo, non ancora preda dei parossismi religiosi che nei decenni a seguire avrebbero infuriato, l’ospitalità islamica si era espressa in un modo fuori del comune.