«Un tempo New York era una città così meravigliosa….Oggi deve lottare ogni giorno per la sua sopravvivenza. Era questo il soggetto di Manhattan. New York deve combattere contro l’avanzare della bruttezza che sta sopraffacendo le grandi metropoli americane, e che viene da una cultura che non ha centro spirituale, educazione, desiderio di essere in pace con il mondo e che non si interroga sul senso della vita e sul suo fine. Oggi si fa solo quello che conviene al momento, per accumulare soldi in fretta, eliminare il dolore, nascondendo i problemi sotto il tappeto».

Così parlava Woody Allen, non qualche settimana fa, in occasione di una presentazione del restauro di Manhattan, ma nel 1979, anno dell’uscita del film. Eppure la citazione (tratta da intervista tv concessa allora in Francia, ma che potrebbe essere riferita alla Ny di adesso, ipergentrificata, costosissima, invasa dai turisti e da oligarchi di paesi poco democratici) funziona benissimo per incapsulare sia lo spirito da cui era nata questa love letter di Allen alla sua città , sia l’amore viscerale e possessivo che New York sa scatenare nei suoi abitanti.

Nello splendore della Rhapsody in Blue di Gershwin e della fotografia in bianco e nero di Gordon Willis (omaggio alla Hollywood classica che informa moltissimo l’opera di Allen), Manhattan torna in sala grazie a un restauro di Park Circus, supervisionato dallo stesso regista (da sempre restio a tornare sui suoi film), in un momento in cui, anche agli occhi del mondo esterno, l’identificazione tra Manhattan e New York non esiste praticamente più –superata dalla colonizzazione (e successiva entrata nell’immaginario) di altri quartieri di Brooklyn o Queens –Williamsburg, Red Hook, Bushwick, Astoria….Il che aggiunge alla visione di Manhattan, nel 2017 , una grandiosità malinconica. Considerato all’estero uno dei lavori più perfetti di Allen, realizzato in un momento di passaggio tra le commedie degli inizi (Prendi i soldi e scappa, Il dormiglione…) culminate con Io e Annie, e la fase più europeizzante (Interiors, Stardust Memories) negli Usa il film incontrò qualche resistenza proprio perché ardiva risucchiare l’intera anima della città nella soggettiva nevrotica di un intellettuale ebreo incline alla depressione, assorto in se stesso, pieno di paranoie e terribilmente logorroico.

Tra i critici più famosi del film fu la scrittrice Joan Didion, sulle pagine della New York Review of Books. In occasione di questa riedizione, qualcuno non ha potuto fare a meno di sollevare alcune analogie tra la biografia più recente del regista (a partire dal matrimonio con la figlia adottiva Soon Yi..) e la storia di un uomo di mezza età (Allen) che si innamora di una diciassettenne (Mariel Hemingway). Se proprio si vuole adottare quella chiave, è il personaggio di Tracy (Hemingway), nella sua ostinata, indifesa chiarezza che rende Manhattan uno dei film più risolti di Allen. E insieme al volto di Tracy (in un famoso monologo del film) le cose per cui vale la pena di vivere non sono poi cambiate molto – Groucho Marx, Louis Armstrong, Marlon Brando, Frank Sinatra, il cinema svedese, le pere e le mele di Cezanne…