Il Venghino, signori, venghino dell’imbonitore Gustavo Cottino davanti alla sua Baracca d’Entrata risuona forte e tentatore. Tra i cavalli delle giostre, le piste degli autoscontro, il tunnel dell’amore, i precipizi dell’ottovolante, Cottino invita ad ammirare Virginia al bagno. Decine di maschi si fermano, si mettono in fila, attendono impazienti che il sipario sveli l’algida beltà priva di velo. Cottino scosta la tenda, e voilà: nell’ambientazione promessa, su un piedestallo, ecco Virginia. Pregiato sigaro dalle voluttuose spirali di fumo. Fuori, altre decine di maschi attendono. A chi è appena uscito, chiedono ‘Com’è, com’è?’. Risposte bugiarde promettono visioni peccaminose. Questo ed altro erano i Luna Park dell’Italia del secondo dopoguerra, universi di piccole e grandi finzioni che aiutavano a ritrovare il senso della collettività e la spensieratezza. Mezzo secolo dopo, tutto ciò sarebbe diventato ricordo nostalgico di suoni e colori, sostituito da attrazioni robotiche, altalene elettroniche, congegni rotanti ad altezze da vertigine. Le morbide melodie avrebbero ceduto a un repertorio da dj, le esclamazioni stupite si sarebbero trasformate in urla di terrore a bordo di gusci sospesi in cielo, le nuvole dello zucchero filato si sarebbero dissolte nel fumo degli hamburgher. Chi pensasse a una forma di moderno degrado, sbaglierebbe. La lunga storia del Luna Park è stata, per sua natura, sempre dettata dai cambiamenti. A modo suo, da tre secoli almeno, il Luna Park continua a mettere al proprio servizio il progresso tecnologico e a sperimentarlo su larga scala, capta cambiamenti di umori e desideri del pubblico, amplifica l’insolito fino a renderlo eccezionale. Valeva, a metà ’800 per l’uomo alto due metri, vale per il computer che comanda la Montagna Russa versione ventunesimo secolo. Se ogni storia comincia con un C’era una volta, qui reciterebbe ‘C’era una volta, a metà del ’700, la Fiera’, luogo provvisorio dove si vendevano merci e si allestivano spettacoli cui assistere fra una trattativa e l’altra. I rapidi cambiamenti nelle modalità e nei canali del commercio fecero sì che la Fiera, sempre nello stesso secolo, diventasse poi un insieme di strutture finalizzate soltanto al divertimento dei cittadini. Spettacoli nomadi, come chi li inventava e animava: i Fieranti, o la Gente del Viaggio. Li descrivono, in Viaggiatori della Luna (Ikon Editrice/Anesv – Agis) Chantal Rossati ed Emilio Vita «In Europa le ultime professioni nomadi della storia sono esercitate dai battellieri e dai ‘viaggiatori’. Entrambi si spostano con tutto il nucleo familiare e con dei mezzi che costituiscono la loro dimora permanente… La Gente del Viaggio, per poter vivere, deve attirare l’attenzione dei centri in cui irrompe a scadenze fisse per rallegrare sagre, fiere, feste popolari… In realtà è semi nomade… percorre itinerari fissi a intervalli regolari, mentre il nomade, e questo si verifica tuttora nel terzo Mondo, per sopravvivere è costretto, da motivi climatici o bellici, o di impoverimento e di infertilità del terreno, a spingersi in territori mai battuti prima di allora». Il semi nomadismo non va confuso con il nomadismo zingaro, nato dalla cultura delle sue diverse etnie. Nelle fiere, tuttavia, sono ancora oggi presenti zingari che gestiscono alcune attrazioni, e in passato i Rom esibivano scimmie e orsi ammaestrati. Massimo Piccaluga, presidente dell’Anesv (Associazione Nazionale Esercenti Spettacoli Viaggianti) appartiene a una famiglia di giostrai di Casale Monferrato, Piemonte, da cinque generazioni «Mio nonno e i suoi fratelli erano in tredici. Da lì altri figli, nipoti, cugini a Bari e in Toscana. Il nostro lavoro non ci permette molti contatti con l’esterno, soprattutto il sabato e la domenica, i giorni in cui si guadagna di più. Ecco allora le nozze tra addetti ai lavori, le nuove generazioni che fanno lo stesso mestiere delle altre. Così i giostrai sono aumentati insieme ai costi, andare da Milano o a una Luna Park di Napoli è diventato un impegno economico non da poco, i viaggi hanno assunto una geografia più regionale. Al Luna Park di Piazza Vittorio a Torino, per decenni il più importante d’Italia (il comune ne ha vietato l’allestimento dal giugno 1986, ndr), arrivavano giostrai da tutta la penisola. Dietro ogni giostra c’è una famiglia, dietro una famiglia c’è una casa, per noi la casa mobile. È una vita di sacrificio, soprattutto rispetto ai bambini, che si spostano con il Luna Park e cambiano ogni volta scuola. Da una parte questo rende più difficoltoso l’apprendimento, perché i programmi non sempre sono allo stesso punto. Dall’altra offre la possibilità di conoscere un numero di coetanei maggiore rispetto agli alunni ‘normali’ e crea un’attenzione molto forte nell’imparare. I figli dei giostrai sono svegli, coscienti della loro diversità di vita».

Per i bambini del pubblico la giostra dei sogni rimane quella che fa girare i suoi cavalli al suono di una musica da fiaba, protagonista da due secoli e oltre di una piazza centrale o in periferia. Sarebbe nata, stando ad alcuni affreschi bizantini, nel Seicento dopo Cristo, dai sedili rotanti, conosciuti anche presso gli aztechi e diffusi in Turchia nel Cinquecento. Il secolo dei lumi vede i padiglioni, o Baracche, iniziare ad affinarsi nelle scenografie e nelle insegne, girare grazie a ingranaggi meccanici, cent’anni dopo usare la forza motrice del vapore e infine l’elettricità. Con il passare del tempo i costruttori affiancano o sostituiscono ai cavalli personaggi di fantasia e, quando inizieranno ad avere larga popolarità, gli eroi a fumetti di Walt Disney. La lunga epopea dei saltimbanchi, dei fenomeni da fiera, delle ruote della fortuna, dei burattinai, degli ammaestratori di animali esotici, degli imbonitori diventa lentamente preistoria. Gli artigiani della giostra e del padiglione scompaiono, oppure vengono assorbiti da una vera e propria industria del divertimento, che avrà in Italia alcuni leader di settore mondiali, con clienti negli States e negli Emirati Arabi. La svolta del Luna Park arriva dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale. Si chiama autoscontro, successo immediato. Ricorda Pittaluga «Potevi guidare un’auto e ridere di un incidente senza farti nulla. C’erano due posti, perciò quale migliore scusa per abbordare una ragazza?». Se andate in cerca su YouTube degli antenati dei videoclip, in cui i cantanti gorgheggiavano la hit del momento, vedrete Gianni Morandi e colleghi sgolarsi a bordo di un mezzo dell’autoscontro. Furoreggiavano i labirinti, giochi di specchi e gallerie tra cui perdersi in cerca dell’uscita; i fidanzati trovavano una manciata di intimità quando sul convoglio del Tunnel dell’Amore scendeva un telo che permetteva di scambiarsi un bacio; gli appassionati di horror si entusiasmavano al cospetto delle apparizioni dentro il Tunnel delle Streghe o dei Fantasmi, luoghi strategici in cui addentrarsi con accanto una ragazza da stringere, spaventata, tra le braccia. Il Muro della morte, praticamente scomparso dai Luna Park, ha ispirato Andrea Camilleri per il racconto Le vichinghe volanti, titolo di una raccolta appena pubblicata con Sellerio. Giurlanno Piscitello, sindaco di Vigata, si inventa la Sagra della Sarda Fritta. Un’edizione vede, quqlche giorno prima, un gruppo di operai alle prese con il montaggio di una strana struttura. La curiosità cresce « Il mistero vinni svilato… quando strate strate spuntaro manifesti a colori che ammostravano a quattro picciotte biunne e bellissime, i lunghi capelli al vento, a cavaddro di quattro potenti motogiglette, ’na russa, ‘na nìvura, ’na bianca e ’na virdi. Sutta ci stava scritto “IL GIRO DELLA MORTE!!! Liv, Annie, Kaj, Ingrid, le quattro VICHINGHE VOLANTI. BRIVIDO, BRIVIDO, BRIVIDO!” … Ognuna riggiva per il manubrio la propia motogigletta Harley Davidosn. Po’, doppo aviri fatto ‘n inchino al pubblico, la prima, che era sempri quella con la motogigletta bianca, inforcava e accominzava a firrirare torno torno alla pista circolari formata dalle pareti della cisterna e appresso le si mittivano la russa, la nivura e la virdi… Acceleravano sempre di più… A un certo momento, tutte e quattro le motogiglette s’attrivavano a girare accussì, le rote come incodrate alle pareti e i corpi delle picciotte orizzontali rispetto al terrreno». Era il Muro, un cilindro del diametro di una ventina di metri, lungo le cui pareti, per forza centripeta, correvano biciclette e moto.

Mercato fino a metà ’700, luogo di spettacoli e divertimenti fino agli albori del ’900, parco divertimenti tra il 1900 e il 1950, spazio completamente meccanizzato dalla seconda metà del ’900, il Luna Park ha mantenuto, secondo Rossati e Vita, un carattere nascosto «Si può realisticamente affermare che i Luna Park sono, in un certo modo, una forma di rito iniziatico che il giovane e anche l’adulto affrontavano e affrontano per mettere alla prova la propria ‘forza’ e vincere paure ataviche affermandosi di fronte a se stessi e agli altri… I tunnel delle streghe, i palazzi magici, il castello fantasma, ecc. sono chiaramente percorsi iniziatici. I percorsi effettuati al buio o caratterizzati da ostacoli e difficoltà nel passaggio affondano le loro radici nei complessi mitico – rituali del mondo mediterraneo classico e preclassico, con tutti i simbolismi relativi all’attraversamento della caverna, della discesa agli Inferi. La caverna, nella simbologia popolare, raffigurava l’utero materno». Altro elemento che ha mantenuto intatti i suoi caratteri è il Luna Park come spazio democratico. Non appena le giostre uscirono dai giardini degli aristocratici per diffondersi all’esterno, le piazze cominciarono a popolarsi di gente che manifestava identici stupore e meraviglia, senza distinzione di classe. Tale elemento è andato accentuandosi sul finale del secolo scorso, incrementato dall’avvento degli ‘effetti speciali’. Paragrafo finale per raccontare di una categoria di artisti inghiottita inevitabilmente dal progresso e dai suoi divieti. Maestri della parola e delle mani erano i burattinai, che facevano da richiamo per i dentisti di strada e i maghi degli intrugli miracolosi. Recitavano su un canovaccio, traendo spunti per le loro storie dai pettegolezzi ascoltati nelle osterie del posto e fare pubblico Gli imbonitori strappavano esclamazioni di orrore o sgomento esibendo nani, donne barbute, uomini con tre gambe, colossi in carne e ossa. Il trucco c’era, ma spesso l’imbonitore approfittava dei brutti scherzi della natura. Voce potente e vicende di amore e dolore componevano il bagaglio dei cantastorie, i ‘cuntu’ delle fiere del Meridione. Contorsionisti, prestigiatori, saltimbanchi non si contavano e, accanto a loro, i biscazzieri armati di carte false e favella per catturare il pollo di turno. Errante nell’anima allo stesso modo dei suoi Viaggiatori, il vero Luna Park somiglia a una vecchia signora di buona famiglia. Come lei guarda con malcelato disprezzo i parvenu del divertimento. Come lei rivendica quarti di nobiltà guadagnati in trecento anni di lavoro sulle piazze. Come lei si fa sfuggire una lacrima pensando a ieri, ed è rapido nell’asciugarla. Una sola cosa differenzia il vero Luna Park da una vecchia signora di buona famiglia. È il grido improvviso e irrefrenabile, l’invito popolare mandato ai quattro venti, il richiamo che attira con la forza di una calamita. Una formula semplice, tre parole soltanto, che la vecchia signora mai si sarebbe azzardata a pronunciare. ‘Venghino, signori, venghino’.

Gustavo Cottino e la fenomenale balena Golia

Gli amici, i compagni di tanti viaggi erranti dicevano di lui che era il più grande venditore di illusioni. Si chiamava Gustavo Cottino, in arte Gustave Cotin, era nato a Pinerolo, provincia di Torino, il 27 agosto del 1923. Vita in moto perpetuo, quella di Gustave; votata alle trasferte su e giù per la penisola, portandosi dietro le Baracche d’entrata, teatri nomadi di una quarantina di metri quadri dove si esibivano ‘fenomeni’ d’ogni genere. E lui sulla soglia, a richiamare il pubblico con promesse mirabolanti. Quando Cottino faceva rima con bambino, il futuro venditore di inganni sgattaiolava fuori da casa per vedere i baracconi fermi in piazza Fontana durante le feste di fine anno e il carnevale. Tornava e si metteva in un angolo a costruire teatrini e a immaginare spettacoli. Un padre assicuratore e una madre maestra non potevano tollerare sogni così poco rispettabili, e Gustavo fu spedito a Torino, dalla nonna. L’adorabile vecchietta si rivelò assai più democratica e tollerante. A tredici anni, il nipote trovò impiego come claque in un bar vicino piazza Vittorio, che ospitava il carnevale più importante d’Europa. Appartenere alla claque significava applaudire sempre e comunque l’artista, ignorandone gli sbagli e lo scarso talento. Insomma: possedere quella faccia tosta che al giovanissimo Cottinogià non mancava. L’amore eterno arriva un anno dopo. Sfreccia sulla sella di una bicicletta, si chiama Loy, intrepida e bellissima ciclista del Muro della Morte. Il Muro era costituito da un cilindro in legno di dodici metri di diametro. I ciclisti e i motociclisti lo affrontavano correndo in posizione orizzontale rispetto al terreno. Per Loy, astigiana, le vigne e le colline erano solo un ricordo sfocato. Il suo mondo, il suo richiamo, sono le strade. Cotin vorrebbe sposarla e seguirla, ma la guerra li separa. Si rivedranno nel 1949 e si diranno si a Gorizia. diventando una cosa sola anche nel lavoro. Lui conferma il proprio talento di imbonitore e trova il colpo di genio nel far entrare in scena dentro il Muro alcuni leoni, che Loy accarezza dalla bicicletta. Dopo una parentesi americana insieme a Silvio Matera, amico inseparabile, terminata con l’espulsione per espatrio clandestino, Gustavo continuerà a lavorare fino al 1994. Cinque anni fa l’ultimo viaggio, per raggiungere. a distanza di due mesi, la sempre bellissima e intrepida Loy. Tra i suoi ‘falsi’, il più celebre rimane la Balena Goliath. Senza dimenticare la Donna Serpente, 1950. Reduce dall’esperienza americana e dal lavoro nel Ringling Bros and Barnum & Bailey Circus, Cottino presenta al pubblico una figura femminile che al posto delle gambe ha una lunga coda di serpente. In realtà la donna è seduta su un materasso, le gambe nascoste dentro l’imbottitura. Sulla pancia è applicata una coda in lattice sagomato, alla quale le gambe imprimono movimento. Il mito della Balena Goliath nasce nel 1954, quando alcuni cacciatori norvegesi pescano un cetaceo lungo 22 metri e pesante 68 tonnellate, battezzato Golia. Dopo averne svuotato il corpo, vi immettono 7000 litri di formalina per conservarlo e venderlo come attrazione. Acquista Golia il torinese Giuseppe Erba, ma l’importazione di animali morti in Italia è illegale. Erba supera l’ostacolo collocando un motore dentro la balena, che provoca finte contrazioni muscolari. Il 19 luglio 1954 l’enorme creatura viene esposta sotto un tendone nel centro di Torino, da cui si leva una puzza insopportabile. Dopo una settimana il tendone sgombera. Golia gira per l’Europa in un tour organizzato dagli impresari Jean Rezzonico e Pierre Siffert. Nel 1969 se la compra Cottino, ma arriva a Bari semidistrutta da una tempesta di mare. Gustavo ricostruisce la balena in cartapesta e con lei si presenta a Roma, Firenze, Bologna e Torino, senza l’incubo di odori pestilenziali. La finta Goliath è talmente ben fatta che il quotidiano La Stampa, nel 1970, scrive di un ‘magnifico esemplare di cetaceo’, esposto al Parco del Valentino.