Cosa succederebbe se in un Paese di fronte a una svolta epocale – l’abdicazione del re e l’annuncio delle prime elezioni democratiche – si simulasse una consultazione elettorale per far comprendere agli abitanti, soprattutto quelli che vivono nelle zone rurali, l’importanza di recarsi al voto e partecipare così a una transizione storica, a un passaggio senza precedenti verso la modernizzazione? Questa domanda è il pre-testo che sta alla base di C’era una volta in Bhutan, secondo lungometraggio scritto e diretto da Pawo Choyning Dorji. Nato nel 1983 in India, esordì nel 2019 con Lunana: Il villaggio alla fine del mondo, già ambientato nelle lande e terre montagnose bhutanesi.

Pawo Choyning Dorji
Siamo stati gli ultimi a consentire la connessione a Internet e probabilmente l’unico paese al mondo a introdurre la democrazia senza guerra e rivoluzioniIl titolo italiano evoca la favola, una storia orale da narrare e tramandare. E in effetti c’è qualcosa di fiabesco in quest’opera composta per ampi quadri e per particolari da portare in primo piano sempre aderendo a una (im)mobilità all’interno della quale fare accadere tante situazioni nel segno di una narrazione corale per disegnare le reazioni di un villaggio nei confronti di una novità che scompiglia le loro certezze e tradizioni. Quel «c’era una volta» ci conduce a un tempo in realtà poco lontano, al regno del Bhutan nel 2006 quando appunto si manifestò l’avvio di quel processo di cambiamento ma pure, con molto ritardo, l’arrivo della tv, delle parabole, di televisori di vecchia generazione in grado però di radunare la gente in casa e in luoghi pubblici (il bar che è uno dei set principali del film) per scoprire tanto un immaginario sconosciuto (tra cui i film con 007) quanto, sul canale statale, le notizie sulle imminenti elezioni da mettere in scena.

IL TITOLO INTERNAZIONALEThe Monk and the Gun – si concentra invece su un aspetto più specifico della storia, una traccia che si rivelerà di primaria importanza e che, fino alle scene finali, produrrà un depistaggio nel pensare come mai un anziano Lama abbia bisogno di chiedere al suo giovane monaco assistente un fucile da usare il giorno e la notte della Luna Piena. Forse per uccidere la giovane responsabile dell’ufficio elettorale giunta dalla città per seguire il corso delle elezioni? Per mantenere intatta la tradizione minacciata da procedimenti che la maggior parte della popolazione non ritiene necessari?

LE DUE STORIE viaggiano in parallelo e qua e là si incontrano per poi unirsi nel finale pacifista con sfumature d’umorismo nel mostrare nello specifico il cambiamento, obbligato dalle circostanze, che tocca il personaggio statunitense trafficante d’armi arrivato in Bhutan e ricercato dalla polizia. Quel fucile antico e ambito avrà la funzione contraria a quella prevista, sarà oggetto da sacrificare e sotterrare, da far sparire sotto una colata di cemento e sul quale costruire un nuovo stupa, monumento buddhista da erigere in un campo. Il rito organizzato dal Lama, che si conclude con un falò al quale tutti prendono parte, contro l’odio e l’aggressività nel mondo, potrebbe esprimersi con retorica, invece Pawo Choyning Dorji si mantiene ben lontano da facili schematismi e chiude il testo aprendolo alla condivisione sincera, al comprendersi tra esseri umani oltre le differenze. Il 24 marzo 2008 si sarebbero svolte in Bhutan le prime elezioni nazionali, ricorda la didascalia finale.