Anche a me è capitato di riflettere e di discutere sul rischio che coloro che si professano democratici, di sinistra e antifascisti, hanno corso nella vicenda dell’esclusione dell’editore Altaforte dal Salone del libro di Torino.

Il rischio è stato ovviamente quello di assecondare una forma di censura, intimamente contraddittoria con gli ideali di libertà e di tolleranza che dovrebbero essere propri della democrazia, della sinistra e dell’antifascismo.

È vero che oggi quel fatto sembra remoto e appannato di fronte a episodi ben più gravi come la sospensione della insegnante Rosa Maria Dell’Aria, con tanto di intervento in una scuola della Digos, oppure l’accanimento del ministro dell’Interno contro un singolo conduttore della tv pubblica, accusato come se fosse una sua colpa di essere pagato troppo, e anche di rappresentare una posizione politica ostile a quella del ministro stesso.

Più gravi perché a Torino, tutto sommato, si è trattato di una decisione presa da privati nei confronti di altri privati, pur con il parere significativo di esponenti politici e istituzionali locali come la sindaca della città e il presidente della Regione, mentre negli altri due casi ci sono state una decisione presa da organismi pubblici contro una insegnante nell’esercizio delle sue funzioni, e una forma di pressione continua e virulenta da parte di un vicepremier, con una carica che dovrebbe essere specialmente informata da misura, equilibrio e imparzialità (!!!).

Credo utile tenere aperta la discussione perché quanto più aumentano i rischi di comportamenti politici e istituzionali autoritari, tanto più vanno pensati rigorosamente i metodi con cui a quei rischi ci si oppone. Si tratta anche di saper operare dei distinguo. Nelle discussioni sul «caso Torino» mi è parso il caso di distinguere tra le scelte di quegli intellettuali che hanno annunciato una loro assenza polemica per la presenza dell’editore vicino a Casa Pound – posizione secondo me sbagliata: non si potevano inventare altre maniere di sollevare il caso aperto dalla scelta di Salvini? – e la decisione finale di fronte a un altro aut-aut di ben diversa natura, sollevato da una donna sopravvissuta a Auschwitz ospite del Salone.

Mi augurerei che ora non ci si confonda studiando improbabili «codici etici» per la partecipazione a una iniziativa che parla di letteratura, di parole e linguaggi, tutte cose che mal sopportano, anzi non sopportano affatto, normative estranee alle leggi sempre reinventate e violate della creatività artistica e della libertà di ricerca e di pensiero. (E una citazione qui della radicalità inventiva di Nanni Balestrini che ci ha appena lasciato).

In alcune reazioni sul caso – per esempio l’editoriale di Galli della Loggia sul Corriere della sera del 12 maggio scorso (Lezioni (storiche) da Torino) – si è invece puntato sul principio astratto della tolleranza liberale, con il paragone storico della linea inclusiva rispetto agli uomini compromessi col fascismo persino da parte di Togliatti. A parte il fatto che allora il fascismo usciva sconfitto, mentre oggi se ne teme una qualche simile riedizione, nulla si dice in quel l’articolo della situazione concreta in cui si sono svolti i fatti. Con Il ruolo di Salvini, e la posizione di una sopravvissuta all’Olocausto.

Ho pensato alla poca produttività del contrapporre una “piattaforma” ideologica a un’altra. Siamo nell’era delle «piattaforme» anche tecnologiche, alle quali molti affidano il futuro – e il presente – della politica e della democrazia. Temo che questo mix tra ideologia e tecnologia favorisca «forme piatte» del pensiero e nell’analisi della complessità degli eventi e delle relazioni umane, da cui non potrà venire nulla di buono.