Gianni Celati (1937-2022) è stato un grande narratore di luoghi, geografie, pianure perché ha interpretato non solo il mondo visibile ma anche la scrittura, le relazioni, i libri attraverso le metafore dello spazio. «Ho smesso di scrivere a casa. Per una decina d’anni, fino alla pubblicazione, nel 1989, di Verso la foce, non ho fatto altro che andare in giro. Pezzo dopo pezzo, a piedi, ho attraversato tutta la valle del Po». Così aveva dichiarato in un’intervista del 1999 per Libération (traduzione di Martina Cardelli), ora ripubblicata in: Gianni Celati, Il transito mite delle parole Conversazioni e interviste 1974-2014, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi (Quodlibet «Storie», pp. 644, euro 24,00).

Immagini di movimento e attraversamento sono frequenti tanto nei romanzi di Celati quanto nelle parole affidate agli interlocutori che lo hanno incontrato nell’arco di un quarantennio, raccolte in questo volume, importante e ben riuscito anche per la capacità di restituire la voce e il temperamento dell’autore.

Hanno partecipato all’edizione, oltre ai due curatori principali, numerosi esperti in un lungo arco di tempo: i primi ‘mattoni’ dell’edificio sono stati posati negli anni novanta da Marco Sironi; poi sono venuti il numero di «Riga» su Celati (2008, nuova edizione 2019), e il «Meridiano» (in particolare, la Cronologia a cura di Nunzia Palmieri); Gabriele Gimmelli ha reperito e trascritto alcune interviste presso il Fondo Celati della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, e ha contribuito a redigere la bibliografia finale; Cecilia Monina ha rinvenuto altre carte disperse; Daniele Benati ha tradotto le interviste inglesi… Un lavoro corale, insomma, che trasmette anche in questo senso l’idea di apertura e circolazione a cui accennavo. Viene in mente un passo dell’ottimo saggio introduttivo (Il disponibile quotidiano), in cui Belpoliti ricorda le circostanze di un’intervista svoltasi a Ferrara, in un bar della piazza Ariostea: «Nel discorso nato così, spontaneamente e senza tracce, entrano altre voci, quelle delle persone che transitano».

Un transito appunto, amichevole, ‘disponibile’, non sempre ‘mite’ per la verità; non sono infatti sconosciuti a Celati il «nichilismo dolce» (l’efficace definizione è ancora di Belpoliti), i disarmati furori, le sofferte incomprensioni, per esempio nei confronti della neoavanguardia: «La faccenda dei miei rapporti con tutto questo campo d’avanguardia è sempre stata abbastanza straziante e derisoria, nel senso che ho alcuni ricordi non certo felici»; «In poche parole: i miei rapporti con questo mondo dell’avanguardia “saputa” sono stati sempre abbastanza disastrosi dal punto di vista psicologico» (conversazione con Claudio Cerritelli, Bologna 1977).

Il volume contiene circa metà delle 131 interviste rilasciate da Celati; quelle presenti, disposte in ordine cronologico, sono state scelte dai curatori in base a tre criteri: la volontà di coprire quasi tutta la durata dell’attività di Celati, la costanza nell’interesse degli intervistatori per la sua scrittura, il rilievo intrinseco dei testi.

Molti di questi, in effetti, si leggono come parte integrante dell’opera di Celati, da cui non si discostano troppo né per modi né per intenti: anche quando risponde a domande puntuali, l’intervistato preferisce quasi sempre la funzione poetica rispetto a quella referenziale, cosicché i dialoghi finiscono per assomigliare a dei racconti, vivaci e lunatici, ondivaghi e geniali. La conversazione, osserva Franco Marcoaldi nel preambolo a un’intervista per la Repubblica (1989), «prende il sopravvento. Sicché alla fine mi ritroverò in mano quelle sue frasi smozzicate, quelle inconcluse provocazioni tese a evitare qualsiasi tono apodittico e definitivo».

Lo scrittore non ci tiene affatto a dare di sé una versione ufficiale, una ‘fotografia’ autentica, pur non coltivando alcun vezzo mistificatorio o depistante. Non si atteggia a maître à penser né si presta, per indole e per temi, a essere interpellato come autorità generica sul mondo, la storia, la società. Sono tratti personali che finiscono per diventare cifra di questo volume, distinguendolo da molte raccolte di interviste ad altri autori importanti del Novecento. Questi risultano a volte ‘bloccati’ nel ruolo imposto dagli interlocutori o da un super Io didascalico; Celati invece si muove, si sposta, attraversa.

Ecco che torna la metafora del movimento, applicata sia alla lettura («Penso a certi libri di Giorgio Manganelli, che io amo molto. Per leggerli bisogna abbandonare ogni aspettativa, perché è come attraversare il deserto a piedi», intervista di Claudia Sebastiana Nobili, 1995), sia ai generi prediletti: il racconto, che Celati definisce «frammentario, dispersivo, nomade» e la novella, che presuppone «una circolazione di voci, di storie, di nomi, di personaggi» (conversazione con Silvana Tamiozzo Goldmann, 2000).

La narrazione stessa non è «un oggetto determinato», ma «un evento – qualcosa che accade come una ventosità che passa da una testa all’altra…» (intervista di Marianne Schneider, 2007). Se «non ci fosse stato il camminare», aveva ammesso nel 2012 in una videointervista per «doppiozero» con Belpoliti, «mi sarei già sparato».

Di certo, senza quell’impulso al movimento Celati non avrebbe scritto o non avrebbe concepito la letteratura come disambientamento e la tradizione come percorso obliquo e sotterraneo: «La tradizione arriva a noi solo in maniera scoppiata, non arriva a noi attraverso la Storia (…). La tradizione arriva a noi solo in questo modo, attraverso delle voci dementi» (intervista di Sylvie Coyaud per la Radio Svizzera Italiana, 1988).

In alternativa alla «Grande Storia», vista come una sequenza determinata di punti fermi e approdi, o come «perpetua esaltazione della singolarità dell’Uomo», Celati rivendica l’erranza, la provvisorietà, l’esitazione che caratterizzano il «limbo senza storia». È per questo che al realismo del romanzo ‘serio’ delle «macrostorie borghesi» ha preferito lo «spazio aperto» dell’epica cavalleresca e del romanzo d’avventura: «Quando leggo Jules Verne è sempre un sollievo per quello. E poi c’è Italo Calvino, dal quale ho imparato quasi tutto, e soprattutto la passione per la scrittura avventurosa. Conrad e Stevenson erano tra i suoi autori preferiti» (conversazione con Luca Torrealta e Mario Zanzani, 1983).

Celati fa spesso il nome di Italo Calvino, che lo aveva ‘scoperto’ («aveva letto un pezzo narrativo su una rivista e dopodiché da Einaudi mi hanno invitato (…) a completarlo», racconta a Mauro Bersani nel 1986, a proposito della genesi del primo libro, Comiche, 1971). Ma non è solo gratitudine e condivisione (tra l’altro, del progetto per la rivista «Ali Babà», mai varata ma importante come laboratorio, cui presero parte tra il ’69 e il ’72 anche Carlo Ginzburg, Guido Neri, Enzo Melandri); Celati riconosce in Calvino lo spirito della tradizione italiana, da non intendersi come progresso teleologico ma come trasmissione di un sapere artigianale: «passare il mestiere non era una cosa personale» (così spiega, nel 1989, in un incontro con gli studenti della scuola media «Ippolito Nievo» di San Casciano Val di Pesa, in provincia di Firenze).

Forse, prima ancora che la passione per i romanzi di avventura, Calvino e Celati condividevano proprio questo: l’aspirazione all’impersonalità, il desiderio di liberarsi dallo stigma dell’autorialità che ingombra il transito della scrittura. «Come scriverei bene se non ci fossi» è una delle frasi più famose di Se una notte d’inverno un viaggiatore. E Gianni Celati, da parte sua, dirà in un’intervista del 1990 con Robert Lumley, traduttore di Narratori delle pianure: «Noi usiamo sempre parole che vengono da altri – storie, piccoli fatti, descrizioni – così abbiamo sempre a che fare con gli altri; ed ecco perché quest’idea dell’autore che è padrone delle proprie parole, del proprio stile, è qualcosa che somiglia a una catastrofe naturale. È una catastrofe naturale se si considera che il linguaggio è una cosa naturale – come gli alberi, i fiumi, l’aria».