Germano Celant (1940-2020) in una foto-ritratto di Brigitte Lacombe

 

Se è vero, come ha sottolineato tempo fa Hubert Damish, che il primo incontro con l’opera d’arte si realizza negli spazi dell’esposizione, dove oggi l’arte sempre più spesso non si mostra soltanto ma viene alla luce e, più raramente, muore, è inevitabile che gli Exhibition Studies occupino da qualche anno un posto decisamente privilegiato nella ratio studiorum di chi vuole partecipare – da storico dell’arte, da critico, da artista, da advisor e soprattutto da curatore – alle fatiche e ai fasti del sistema globale dell’arte.
Germano Celant, che per oltre mezzo secolo di questo sistema è stato protagonista e costruttore, non ha del resto mai perso occasione per ribadire che la scrittura espositiva non è un banale corollario della pratica critica, un momento di visualizzazione o, nel migliore dei casi, di verifica di tesi maturate nelle stanze dell’accademia o negli studi degli artisti. Al contrario. «Mi sono reso conto che per cinquant’anni ho praticato diverse scritture: a) la teorica, per la stesura di saggi e interpretazioni su singoli artisti e temi o momenti che hanno segnato la storia dell’arte moderna e contemporanea; b) l’editoriale, per la costruzione di libri e cataloghi (…); c) l’espositiva, il cui contributo si traduce in momenti pratici e concreti, che vanno dalla selezione delle opere, alla loro distribuzione e alla loro messa in scena negli spazi architettonici, all’informazione e alla comunicazione che sono necessari per una lettura allargata e pubblica».
È con questa premessa che si apre The story of (my) Exhibitions, l’ultima e purtroppo postuma pubblicazione di Germano Celant, scomparso nell’aprile dello scorso anno di ritorno dall’Armory Show di New York, l’ennesima vittima di un virus che non ha certo risparmiato il mondo dell’arte. Il monumentale volume, appena uscito da Silvana editoriale (pp. 557, e 70,00) era in cantiere già dal 2017 ed è stato portato a termine da Argento e Paris Murray Celant, il figlio e la moglie del critico, che si prendono oggi cura dell’eredità, tanto importante quanto impegnativa, dello Studio Celant. Evidentemente pensata per una diffusione internazionale (i testi sono in inglese con la traduzione in italiano riportata in appendice), quest’opera dalla solida architettura e dalla ricchissima documentazione conferma pienamente il metodo e la sensibilità del critico.
Fin dai suoi precoci esordi – nato nel 1940 a Genova, dove ha studiato storia dell’arte con Eugenio Battisti, Celant nel 1967 curava Arte povera – Im spazio alla galleria Bertesca, inaugurando quella fortunata avventura poverista a cui il nome di Celant è indissolubilmente legato – il critico nel suo lavoro dentro e fuori le grandi istituzioni internazionali ha infatti sempre considerato indispensabile la raccolta e l’organizzazione dei documenti, insistendo ogni volta sulla necessità di mettere in fila le date e i dati per costruire dettagliate, e comunque critiche, cronologie.
Si tratta di una scrupolosa storiografia del presente, improntata a una vera e propria passione archivistica (Derrida parlava del Mal d’archive) che si riconosce in ogni passaggio della lunga e fortunata attività di Celant, impegnato già nell’estate del 1972 a stabilire i passaggi cruciali della minimal art, dell’arte concettuale, della land art, della body art, dell’arte ambientale, dei nuovi media e, naturalmente, dell’arte povera, ordinandone le ancora brucianti vicende nelle pagine di Preconistoria 1966-69, un libro edito nel 1976 dal militante Centro Di e di recente riproposto da Quodlibet.
Seguendo questa traiettoria, anche The story of (my) Exhibitions si offre, innanzitutto, come un formidabile regesto, una puntuale raccolta di testi e, soprattutto, di immagini, riproduzioni di copertine e fotografie, spesso inedite, degli allestimenti delle trentaquattro mostre collettive selezionate per questa impressionante storia – dell’arte, della curatela e anche della museografia – che va dal 1967 al 2018, quando nella sede milanese della Fondazione Prada, di cui Celant è stato dal 1995 direttore artistico e poi soprintendente artistico e scientifico, il critico ha curato Post Zang Tumb Tuuum: Art Life Politics. Italia 1918-1943, sicuramente una delle proposte espositive più ambiziose di questi ultimi anni.
Fatta inevitabile eccezione per le immagini della tante volte celebrata Arte povera + azioni povere dell’ottobre 1968 ad Amalfi, una rassegna dove l’elemento performativo e il vivace confronto critico costituivano, negli spazi degli arsenali come nell’aperto della città e del paesaggio, parte integrante dell’evento, le fotografie che sono state selezionate per il volume preferiscono quasi sempre al rumore del pubblico il silenzio, la solitudine senza turbamento degli allestimenti. Anche la scelta di adottare per tutte le immagini un austero bianco e nero, da sempre molto amato dagli storici dell’arte e dell’architettura, contribuisce a enfatizzare soprattutto le relazioni spaziali, rende più leggibili quei rapporti di luce e di ombra che costituiscono la cifra di una scrittura espositiva che, pur nelle inevitabili e opportune trasformazioni, in tutte le mostre documentate mantiene costante l’attenzione a quella che Celant ha chiamato la «coincidenza espressiva tra arte e ambiente».
E proprio Ambiente/Arte era il titolo nel 1976 di una delle mostre più note e influenti che il critico ha progettato e allestito nelle stanze, per l’occasione riportate all’originario rigore, del Padiglione Italia al Giardini della Biennale. Oltre a rappresentare uno snodo cruciale nella carriera di Germano Celant, il quale matura in questa occasione la piena consapevolezza che «l’arte crea uno spazio ambientale nella stessa maniera in cui l’ambiente crea l’arte», elaborando compiutamente una «visione sferica» dell’arte, una ricerca di connessione che ha orientato nel corso degli anni il suo lavoro curatoriale, questa mostra è stata anche un cruciale laboratorio, teorico e pratico, per la definizione, tuttora irrisolta, del genere, oggi trionfante, dell’installazione. Un’arte «senza cornice», in bilico fra opera ed esposizione, un linguaggio impuro che guarda alla collezione e al teatro, necessariamente time, oltre che site specific, che in quella lontana rassegna ebbe modo di mostrarsi oltre che nelle sue declinazioni più recenti anche nelle sue premesse storiche attraverso fotografie e ricostruzioni (la Prounernraum di El Lissitstky, il Merzbau di Kurt Schwitters, l’ambiente progettato nel 1922 da Kandinsky per la Juryfrei Kunstshau). Un lavoro che Celant ha definito di «scavo archeologico» in cui vennero coinvolti anche gli ambienti di Klein a di Arman e che ha inaugurato una linea espositiva e di ricerca, quella delle «mostre in mostra», divenuta ormai canonica e di cui proprio Celant ha firmato alcuni dei momenti più significativi.
Tra le mostre raccontate in questo volume c’è infatti anche il reenactement di When attitudes became forms, l’esposizione curata nel 1969 alla Kunsthalle di Berna da Harald Szeemann e rimessa in tutt’altra scena – Ca’ Corner della Regina a Venezia – da Celant nel 2013. Un’operazione che suscitò reazioni di segno opposto e che ora si mostra impeccabile nelle foto che la presentano, scatti eleganti in cui non si vedono le assenze e i disagi. Una conferma di come, per quanto ricca e accurata sia, come in questo volume, la documentazione, niente può sostituire l’esperienza della mostra, che come ogni installazione trova nel corpo del visitatore la sua, sempre parziale, verità.