A cento anni dalla nascita e a cinquanta dalla morte di Paul Celan la casa editrice Mondadori, che ha il merito storico di aver per prima raccolto in un volume dei «Meridiani» esemplarmente curato da Giuseppe Bevilacqua tutta la produzione lirica del poeta originario della Bucovina, pubblica un’ampia silloge curata da Dario Borso dei Microliti («Lo Specchio», pp. 202, € 20,00) nome attribuito dagli editori dell’edizione critica di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou alle prose, agli aforismi, agli appunti e alle note di critica o di poetica che Paul Celan raccolse per tutta la sua carriera di scrittore a fianco dell’opera lirica e saggistica.

Sono minuscole cristallizzazioni di pensiero, non romantici frammenti, dunque concrezioni che non rimandano ad altro fuori da sé, e richiedono invece di essere osservate al microscopio e comprese nella complessità della loro struttura, minima ma chimicamente perfetta.

In queste creazioni puntiformi, di densità variabile come strutture di pietre diverse, la formidabile invenzione linguistica di Celan costruisce nessi geniali fra le molecole dell’insieme, sfidando non meno che nei versi calibratissimi delle liriche, la tenuta stessa della lingua, sia essa il rumeno, come nei primi microliti, il tedesco, come nella maggior parte di essi, o il francese.

Scelte di traduzione
Le parole, sottoposte a un lavoro di scavo e approfondimento attraverso una serie impressionante di variazioni fondate su affinità, assonanze, echi e trasformazioni, finiscono per produrre un duplice e contraddittorio effetto: da un lato potenziano enormemente la capacità denotativa della lingua, dall’altra finiscono per comporre una sorta di antilingua che smaschera poeticamente la debolezza dell’espressione ordinaria. Costretto a considerare successivamente, una dopo l’altra, le soluzioni e dissoluzioni poetiche del linguaggio celaniano, il lettore finisce per ritrovarsi in un dominio inusitato in cui nulla è più fermo, stabile, consueto.

Dinanzi a simili capolavori di sottigliezza e intelligenza linguistica e poetica ci si aspetterebbe una traduzione sensibile nel rendere gli scambi, i giochi, le sostituzioni, le deformazioni che danno forma all’antilingua di Celan.

Dario Borso invece, che pure è traduttore sperimentato e reso consapevole dal lavoro compiuto sull’ultima raccolta celaniana, Oscurato, tradotta per Einaudi nel 2010, compie scelte che si fatica a capire. Di seguito solo qualche esempio illustrativo. Il primo proviene dalla Storia dello scoiattolo che desiderava un guscio di vetro e da ultimo l’ottenne, del 1949. «Scoiattolo» si dice in tedesco Eichhörnchen, cioè letteralmente «cornetto della quercia». Celan popola la sua storia anche di inesistenti e fiabeschi Erlhörnchen, Eibhörnchen, Haselhörnchen, cioè cornetti dell’ontano, del tasso e del leucisco. Forse per mantenere l’unità della parola, Borso procede per sottrazione, facendo dei tre scoiattoli rispettivamente un «coiattolo», uno «iattolo» e un «attolo». Non sarebbe stato più semplice e rispondente allo stilema fiabesco chiamare questi strani esseri «scoiattolo della quercia, dell’ontano, del tasso» e così via?

In un’altra difficilissima e bellissima prosa del 1951 la successione di aggettivi, davvero ardua e stupenda, «Betrunken, betaut, behimmelstaut, behimmelt» è resa con «ubriaco fradicio, irrorato dal cielo, evaporato in cielo». A parte l’omissione inspiegabile della prima virgola, che stravolge il senso dell’insieme, «betaut» significa «bagnato di rugiada», la quale proviene dal cielo e spiega il successivo «behimmelstaut» cioè, correttamente, «irrorato dal cielo», ma non spiega affatto la traduzione di «behimmelt» con «evaporato in cielo», poiché il significato proprio e logico della parola è «toccato dal cielo» (bastava controllare sul dizionario dei Grimm): colui che viene irrorato dalla rugiada è dal cielo medesimo sfiorato.

Un appunto del ’54
Lo spazio obbliga a fermarsi qui. Ma come si conciliano la doverosa attenzione del traduttore con arbitrii grammaticali come: «Che bello! Che solenne!» o un «Te stesso» anziché «Tu stesso»? E quale riflessione ermeneutica fa sì che un importante appunto di poetica del 1954 sia reso così: «Riga in prosa sino al margine / riga in poesia – / lo spazio libero. / L’uomo rimane disponibile, però devi saperlo prendere», mentre dovrebbe suonare secondo logica e grammatica in questo modo: «Riga di prosa fino in fondo / riga di poesia – / lo spazio vuoto / l’essere umano resta disponibile ma tu devi saperlo catturare»?