Mentre il suo sovrintendente Cristiano Chiarot viene chiamato a Firenze per salvare quel teatro lirico e il Maggio musicale sull’orlo del baratro di bilancio, la Fenice mostra uno spettacolo «esemplare» della varietà della propria mission: oltre alla conservazione e riproposta dei classici, la promozione del nuovo e la verifica di quanto ieri è stato avanguardia e ora rischia il dimenticatoio.
A questi «doveri» risponde al Malibran (oggi alle 15,30 ultima replica) Cefalo e Procri, piccola opera presentata alla Biennale musica nel ‘34, composta da Ernst Krenek (austriaco, accusato dai nazisti di «arte degenerata»), su libretto di Rinaldo Küfferle, lo stesso del Libertino di Stravinsky.

Da allora mai più rappresentata, e ora in scena preceduta da una sorta di composizione «reciproca» che coglie il fulcro, quasi una chiave di lettura, della morality play di Krenek. Protagonista è la stessa Procri nel contrastato amore narrato da Ovidio nelle Metamorfosi. Una partitura coinvolgente, cantata dalla sola Procri, e commissionata dalla Fenice a Silvia Colasanti, una delle migliori compositrici contemporanee, che prende a titolo un verso seicentesco di Francesco Cavalli: Eccessivo è il dolor / quand’egli è muto.

È proprio questa affermazione a rivelarsi chiave di lettura della vicenda: dei e umani vogliono e pensano di giocare, ma le conseguenze della loro incoscienza finiscono dritte nella tragedia ove le spinge la gelosia e la sfrontatezza ora dell’uno ora dell’altro. La divina Aurora si confronta e si scontra con la sua ascendente Diana; i giovani del titolo, entrambi figli di re, sfidano il destino mettendo a prove fatali la fedeltà dell’altro. Traspare un erotismo voglioso e sfrenato, opportunamente «velato» (anche se non del tutto) dall’essere il componimento una tipica moralità controriformista.

E proprio sui chiari e gli scuri gioca la regia di Valentino Villa, uno dei migliori registi del teatro di nuova generazione, qui al suo debutto nella lirica. Anche se la musica ha sempre avuto un valore decisivo nel suo teatro, come testimonia il suo indimenticabile Blu che riportava nella nostra quotidianità il Barbablù di Bartòk.
Una grande parete scura riquadrata in stile giapponese (scene di Massimo Cecchetto) apre a tratti al centro uno schermo, quasi a far trasparire luoghi della memoria o ambienti della divinità. Ma il luogo di scontro è tutto interiore, tra amanti e tra dee, e non è edificante per nessuno. Quello di Villa diviene così una sorta di ficcante tractatus sull’argomento, che asseconda la scelta dodecafonica dell’autore, ma non ne dissolve le origini neoclassiche. Concertandosi bene con la direzione di Tito Ceccherini e il suo percorso dentro un’opera certo oggi meno assimilabile che negli anni trenta, mentre i cantanti partecipano decisi al rito.