Leggere libri di viaggio è un’attività da sempre imparentata con l’avventura: può amplificarla o sostituirla, o acquisire una funzione ulteriore, sollecitando il lettore moderno ad apprendere un metodo per farsi strada oltre la temuta cortina di quanto può apparirgli esotico. Qualunque sia stata la meta toccata nel corso della sua lunghissima carriera – dal Giappone al Mali, dalla Thailandia alla Provenza – l’olandese Cees Nooteboom è sempre stato scettico sulle pretese di conoscenza intrinseche al viaggio. Nei suoi libri, il senso dei luoghi retrocede nel momento esatto in cui si avvicina all’approdo. E mentre un qualunque scrittore di viaggio esamina le tracce di ciò che insegue, a volte attraverso i propri romanzi, altre volte riversando le sue note in reportage, altre ancora in sillogi poetiche, Nooteboom riesce a far perdere i propri passi tra le pagine dove deposita le sue reminiscenze. Maestro dell’illusione, lascia al lettore l’incombenza di dedurre se la destinazione sia stata effettivamente raggiunta, o se non sia incappato in una fantasticheria letteraria, in un ricordo vecchio di decenni.

Ai libri sostanziati di fatto dal tema del viaggio va anche ascritto Autoritratto di un altro Sogni dell’isola e della città di un tempo (traduzione di Fulvio Ferrari, in uscita da Crocetti, pp. 84, € 12,00) una raccolta di prose poetiche del 1993 ormai introvabile anche nei Paesi Bassi; e non soltanto per le descrizioni naturalistiche, che tratteggiano una selva disabitata ma vividamente concreta, ma anche per una sorta di sviluppo narrativo che unisce i frammenti del libro in cui l’autore procede come un pellegrino, imbattendosi anche in un sé stesso che ha assunto le fattezze di un oggetto inerte.

Ghirigori espressivi
Osservata dal di fuori, la propria coscienza gli appare come una crisalide vuota, una scoria, un’ombra che è preferibile far svanire. Non a caso in questi testi Nooteboom ha scelto di raccontarsi in terza persona, accentuando nel lettore il senso di straniamento ed esasperando quella dissoluzione dell’io narrante, che ha influenzato tutte le fasi della sua produzione poetica. Nell’antologia poetica Luce ovunque, c’è una stanza particolare, intitolata «Incontri», dove si legge: «Viaggio d’inverno del poeta. / Ma cosa ti succede? / Quale di tutte le tue anime / prende ora di tasca la moneta / e la lancia dal ponte più alto, /uno scintillio / tra il nero delle onde?». Dedicati a Borges, questi versi si direbbero riferiti al nero delle onde del Rio della Plata; ma la lettura parallela dell’incipit di Venezia Il leone, la città e l’acqua ( traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, pp. 256, €19,00) farebbe pensare che già in quei versi Nooteboom guardi al Canal Grande.

In apertura, una indicazione paradossale: «Sono in viaggio verso la seconda volta della prima volta. Questa volta non dividerò la città sull’acqua con nessuno. Nel mio allora di ora è il 1982, il tempo presente delle mie frasi è incastonato in una continua ripetizione».

Con un ghirigoro espressivo Nooteboom fa intendere che il suo non è il primo incipit vissuto sulla laguna, e che il legame con Venezia ha per lui qualcosa di indissolubile: è una frequentazione distribuita lungo linee temporali ben distinte, e non agevolmente ricostruibili a meno di non scorrere la sua bibliografia. In apertura, una scena in cui è presente un treno che incede sul mare, mentre l’immagine di Venezia, «intensificazione del nulla», tremola all’orizzonte: simili scene devono essersi ripetute, nella letteratura, decine di volte, e ricapitolarle, mentre si cerca di isolare l’Io narrante di Nooteboom da tutti quelli che lo hanno preceduto, è possibile solo spacchettando il ricordo.

Da sempre, com’è noto, i miraggi veneziani hanno attratto gli scrittori e i generi letterari più diversi, da Ruskin a Thomas Mann a Ezra Pound a mille altri, e ciascuno di loro ha provato a ritagliarsi in quel panorama un proprio posto, una propria orbita di legittimità. Orgogliosamente asistematico, nomade, lento e privo di qualsivoglia sviluppo, Nooteboom riesce a entrare in sintonia con lo spirito anacronistico della città, sviluppandone il racconto in dodici capitoli, corredati da fotografie, dove è l’occhio a trionfare, tra descrizioni di tele celeberrime e immersioni in altri dipinti sconosciuti. Con grande accuratezza visiva, l’autore olandese rende omaggio ai monumenti di un’utopia morta, che i veneziani subiscono in quanto tale e i visitatori si limitano a sbirciare; ma nessuno saprà mai a chi quella utopia appartenga davvero.

Nooteboom, tuttavia, non è uno scrittore passatista: nella sua opera la memoria non ha la funzione di contenitore, bensì di specchio. Percorrendo con lo sguardo la facciata marmorea della chiesa di Santa Maria del Giglio, osservata dalla sua camera d’albergo, rievoca la storia dei Dogi, e rende personaggi i fregi della facciata, simbolo dell’immane potere della Serenissima «inerme ma ancora potente, anche se solo in quanto morto, un paradosso fatto di pietra». La materia immobile si anima e si fa pensante, ora l’opera in fieri guarda il narratore, che si perde nelle pagine fino a dileguarvisi. Nooteboom sembra ritrovarsi a Venezia anche quando fisicamente non è lì, mentre consulta il catalogo di una mostra, o sfoglia le pagine di un libro, per esempio un libro su Paolo Sarpi; ma al tempo stesso è sempre assente, anche quando è in città, perché la sua Venezia è quella di uno, cinque secoli fa.

Parole senza poeta
D’altronde, proprio presso le tombe dei poeti scomparsi avvengono spesso i fatidici incontri cui lo scrittore olandese si riferisce nelle sue poesie. Fra le tante «volte» delle visite a Venezia, che cita nell’incipit, una è raccontata in Tumbas – tra i più notevoli testi recenti di Nooteboom – dove già è evocato brevemente Iosif Brodskij, sepolto nel cimitero veneziano di San Michele dopo aver peregrinato in vita fra celle, divani letto e, un po’ come Nooteboom, camere d’albergo. Oltre che di pietra e d’acqua, si scrive dunque di vite trascorse: Casanova e Teresa d’Avila, il nume dei letterati e dei viaggiatori olandesi Louis Couperus. E anche Borges, con il labirinto a lui dedicato sull’isola di San Giorgio, ricompare. Le pagine di Nooteboom non allineano, tuttavia, una lugubre rassegna di fantasmi, giocano piuttosto con la distinzione fra vivi e morti cui le tombe si prestano. A tratti andare a Venezia ricorda una discesa allo Stige, è una città che si presta a questo scambio, a questo travaso ininterrotto.

Dagli esordi di Philip e gli altri Cees Nooteboom ha mostrato un gusto per il ricamo baroccheggiante. Prima di vestire, nel suo primo romanzo, i panni del vagabondo, aveva studiato il greco e il latino presso una scuola cattolica, e le lingue morte sono alla base – ha dichiarato – della sua educazione letteraria: «tornata a essere parole senza poeta – scrive in una poesia di Luce ovunque – / e ancora / lettere nella pietra poco a poco illeggibili, / sussurro di frammenti, / l’eco enigmatica di una preistoria».