Cecilia Mangini negli ultimi anni era una presenza costante, un riferimento intellettuale e di pensiero, qualcuno a cui rivolgersi per chiedere del mondo, del presente, della storia d’Italia, del comunismo – lei che si definiva «comunista eretica».   E per parlare di cinema, naturalmente, delle immagini che erano state – e lo erano ancora – il centro della sua vita, strumento politico e poetico in quel confronto con la realtà alla quale non si era mai arresa. Fossero film o fotografie la «sfida» era sempre lì, prioritaria e senza demagogia.

FORSE è per questo che la sua opera riesce a esprimere con chiarezza il nostro Paese – tra dopoguerra e mito della modenità – a comporre una «biografia» (critica) italiana sempre attuale in cui il suo schierarsi, la militanza, è prima di ogni altra cosa un punto di vista e un vissuto, sia che attraversi le periferie romane o il sud, sia che ci porti nel Vietnam di Ho Chi Mihn – ne sono testimonianza preziosa  i suoi scatti nel nord del Paese già in guerra. Sia che parli di sessualità – come in Comizi d’amore 80 (1982) realizzato con  Lino Del Fra, il suo compagno di ogni battaglia, quando riprendendo i fili dei Comizi d’amore di Pasolini (1963) viaggiano nella Penisola e ne scompongono l’autofinzione di «società moderna».
Ma, veniva da chiedersi ascoltandola parlare in una giuria – avevamo condiviso più volte quella del Premio Solinas per il documentario – o in un festival – l’ultimo lo scorso gennaio a Rotterdam quando aveva presentato Due scatole dimenticate – Un viaggio in Vietnam codiretto insieme a Paolo Pisanelli: dove era stata Cecilia fino a quel momento, a dieci, forse quindici anni fa quando la sua figura sottile sovrastata da indisciplinati capelli bianchi aveva (ri)preso a attraversare l’orizzonte? Veloce come i suoi passi, nonostante la fragilità degli anni – era nata il 31 luglio del 1927 a Mola di Bari  – appassionata come le sue parole che assecondavano l’irruenza di un attimo con umorismo, autoironia, attente a quel dettaglio che era per lei lo strumento più efficace con cui arrivare al senso delle cose.
Cecilia che ora non c’è più, e sembra incredibile perché era di quelle persone che apparivano eterne, era stata cancellata come altri registi – non solo del «cinema del reale» – dal nostro «sistema» cinematografico secondo la pratica di escludere sensibilità, approcci «strabici», poco allineati a una certa forma dominante – tipo la commedia all’italiana. E invece le generazioni più giovani, che lei adorava, in questa sua singolarità avevano colto una «lezione» importante con cui costruire con indipendenza il proprio corpo a corpo col mondo.

DI TUTTI i suoi compagni degli esordi cresciuti alla scuola di De Martino – Mingozzi, Luigi Di Gianni, Gandin – Cecilia era la migliore. Ma era una donna e in quegli anni Cinquanta italiani sembrava impossibile ci fosse una ragazza dietro la macchina da presa. Davide Barletti e Lorenzo Conte le avevano dedicato un bel ritratto, Non c’era nessuna signora a quel tavolo (2013), la frase era di Mangini e chiariva bene la sua presenza in un mondo di maschi. Al punto che la «femminilità» – lei bellissima, i gioielli, le giacche, l’eleganza mai «alla» moda – dove essere dimenticata, o almeno svalutata come il suo lavoro. Che invece è originale, sempre. Sarà, Cecilia, una delle poche a mettere da parte subito la dicotomia forma/ contenuto così in auge nel pensiero critico dell’epoca: se fare cinema è cambiare il mondo – «Giriamo film per incidere sulla realtà, un diritto che ci viene continuamente limitato» – questo non significa per lei eludere l’inquadratura, il ritmo, il tempo, lo spazio. E mentre documenta con le fotografie vita e lavoro nelle saline di Lipari non rinuncia al respiro di quel paesaggio: che non è estetizzante ma diviene una scelta politica, il rifiuto dell’iconografia della miseria.
Parlando di donne – che è la sola a mettere nel centro dei suoi frame – ha in mente i formalisti russi – nel suo magnifico Essere donne (1964) che non venne distribuito – così come quando illumina i sogni del boom – Felice Natale (1965). E spiazza la commedia in Tommaso (1967) sul mito del posto in fabbrica, il petrolchimico di Brindisi, a cui aspira il giovane protagonista, che potrà così comprarsi la moto. L’industralizzazione forzata che ha divorato il meridione, le sue campagne, i suoi riti sarà la stessa che lo ucciderà. Lei vi si oppone cercando di costruire una memoria almeno sulla pellicola che possa diventare patrimonio collettivo – Stendalì – Suonano ancora (1959) sul pianto rituale nel Salento delle donne ai funerali con le parole di Pasolini. Quella Puglia Cecilia la conosce, è la sua terra –  anche se poi è cresciuta a Firenze dove la famiglia arriva nel 1933 con la testa martellata dalla propaganda fascista – «ci facevano cantare Faccetta nera da bambini». E se la porta dietro nelle sue immagini, è l’orizzonte in cui si srotola una narrazione di conflitti, paradossi, menzogne, speranze e tradimenti.

DOVE mettersi lo sa già quando arriva a Roma per lavorare alla Federazione italiana del circoli cinematografici. Lo dimostra il suo esordio Ignoti alla città (1958) ispirato ai Ragazzi di vita di Pasolini che viene censurato: troppo scandalosi quei ragazzetti di borgata, sottoproletariato che ammicca alle promesse del benessere e passa il tempio tra spicci, furtarelli e desideri di scarpe nuove. Insieme collaborano di nuovo per La canta delle marane nel 1962 – lo stesso anno del censuratissimo Allarmi siam fascisti firmato insieme a Del Fra e Lino Micciché sulle connivenze tra Chiesa e fascismo. La Canta è invece l’estate di una banda di ragazzini nella periferia romana, irriverenti come sarà anni dopo il bambino di La briglia sul collo (1974), fotografia surreale – e rodariana – della scuola italiana che è il suo ultimo film (da sola). Troppa fatica, troppi ostacoli per fare il cinema come vuole. Lo dirà bene nel suo ritorno a sud insieme a Mariangela Barbanente – In viaggio con Cecilia (2014)- in cui si parla dell’Ilva, dei sindacati, e di cosa significa oggi fare cinema «impegnato». Lei si mette in gioco, ancora una volta, nelle immagini e nella vita. Era il suo incanto, e la sua bellezza, quello che rendeva unica ogni sua storia.