Nessun autocompiacimento o strane commistioni fra sacro e profano che per qualche anno hanno caratterizzato la kermesse estiva perugina. L’edizione invernale di Umbria Jazz (28 dicembre – 1 gennaio), dopo gli scricchiolii del ventennale festeggiato lo scorso inverno, stretto tra polemiche sui finanziamenti e i segni dell’alluvione che hanno devastato l’entroterra orvietano, parte con il piede giusto. Nell’androne del rinascimentale Palazzo del Popolo lunghe fila al botteghino per gli ultimi biglietti di un cartellone che recita già un rosario di sold out. Successo oltre le previsioni – + 58% rispetto al 2012, e il direttore artistico, il ’paron’ Carlo Pagnotta gongola correndo come una trottola fra gli stucchi dell’antico teatro Pedracchi, la sala expo e le sontuose navate della Sala del 400, presentando concerti e musicisti.

Il programma è messo a punto per accontentare il colto e l’inclita; scordatevi la sperimentazione ma – è una certezza almeno – non si scende mai sotto la sufficienza. E anche quando il tributo alle feste arriva inevitabile, con il gruppo gospel che fa a gara a chi lancia l’acuto più lancinante, il piedino lo si muove che è un piacere così come il ’right now’ in controcanto al leader è assicurato. Garantisce Bobby Jones, istituzione nel mondo del gospel pronto a introdurre i Singletons, «cinque fratelli cinque» figli di un pastore nella comunità della California – narrano le cronache – dove ha fondato due chiese. Piano, basso e batteria ad accompagnare un programma dove non manca proprio nulla, compreso l’immancabile Happy day glorificato nel bis. Amen.

Più laico decisamente fuori dai canoni, è l’omaggio allo ’spiritual’ del trombettista Fabrizio Bosso e dai suoi efficacissimi partner, Alberto Marsico all’Hammond 83 e Alessandro Minetto alla batteria. Davanti a un’affollatissima platea macinano un set senza soste (e fronzoli) di novanta minuti dove danno sfogo a libera interpretazione della tradizione dello spiritual. La tromba di Bosso si libra altissima ma lascia il giusto spazio anche ai due compagni di viaggio. Mahalia Jackson avrebbe benedetto l’incontro. Il 2013 di Umbria Jazz suggerisce agli spettatori nella bomboniera del Mancinelli due diverse interpretazioni della definizione standard. Per Paolo Fresu è «il modo con il quale i jazzisti ma non solo hanno nel tempo riformulato melodie note e accattivanti» e nel primo dei quattro concerti (ancora oggi e domani sempre al Mancinelli) che lo rivedono in coppia con il pianista Uri Caine si misura proprio con ’evergreen’. Dal classico del songbook americano Everything happens to me di Dennis/Adair (1941) a una traccia meno nota ma altrettanto abbagliante estratta da Porgy and Bess ovvero Here Come de Honey Man/Crab Man/Oh, Dey’s So Fresh and Fine. Un confronto fra il timbro onirico marchio di fabbrica del suono distillato dall’artista sardo – su cui apporta variazioni e effetti sempre misurati e la verve di Caine, una girandola di improvvisazioni sulla tastiera: dal blues al jazz, puro e impuro, classica con qualche (timida) reminiscenza pop.

Lo standard – così come lo affronta la giovanissima Cecile McLorin Salvant (la grande sorpresa del festival) – è invece un tributo a canzoni immortali distillandone con raziocinio (e cuore) le melodie più recondite. E per farlo la voce arabescata della ventiquattrenne originaria del Michigan che nel 2010 si è aggiudicata il prestigioso Thelonioius Monk International Jazz vocal competition, sceglie la strada più ostica ma affascinante. Un quartetto sincronizzato con Aaron Diehl al piano, Paul Sikivie al contrabbasso e Rodney Green alla batteria, rallenta le esecuzioni e ne suggella le note. Per interpretare con intelligenza bisogna avere una padronanza dello strumento e una conoscenza smisurata dei classici. Ad appena ventiquattro anni Cecile, nata a Miami a madre francese e padre haitiano, li possiede entrambi. Flirta con Cole Porter che è una meraviglia e lo dimostra in un’impagabile versioni di So in love, rarefatta e misteriosa, e in una giocosa I Get a Kick Out of You. Accarezza le canzoni con un filo di voce – costringendo il pubblico a un religioso silenzio – si concede gustose citazioni: le basse e burrose note omaggio a Miss Sassy alias Sarah Vaughan per poi piegare l’ugola a farsi chioccia per celebrare Billie Holiday, in una ripresa da applausi di He’s Funny that Way.

Lo definiscono il bassista più cool della sua generazione, ma è per dire che nel ’borsino’ (brutta parola) dei musicisti jazz con più frequentazioni e ospitate, è fra i più richiesti. Invero, Christian McBride è musicista grintoso e brillante, con delle idee ben precise sui confini e le contaminazioni che il jazz può regalare/regalarsi. A Umbria jazz – fa notare – ci è già stato giusto vent’anni fa e per farsi perdonare la prolungata latitanza si misura con cinque esibizioni, le ultime stanotte all’una al Mancinelli e domani alle 19 alla Sala dei 400. Insieme al quintetto acustico Inside straight – con cui ha inciso gli ultimi due dischi Kind of Brown nel 2009 e ora People Music – palesa un vigore esecutivo e un’alchimia fatta di occhiate, risate tra brani originali, omaggi a grandi come McCoy Tyner in una miscela esplosiva di hard bop ed echi di soul e blues.

Ancora due giornate di festival, oggi e domani con il cast che annovera fra gli altri anche i 3 clarinets formati a Kaen Peplowski, Evan Christopher e Anat Cohen, la sassofonista cilena Melissa Aldana, Enrico Rava, Rosario Giuliani, Franco Cerri, Lewis Nash e Steve Wilson duo, Joe Locke e Warren Wolf vibes duo, Walter ’Wolfman’ Washington.