C’è una parte dell’industria alimentare che lavora per condizionare le scelte alimentari dei consumatori, non sempre nel migliore dei modi. Bisogna sapere che la marginalità è molto più alta sugli alimenti poco salutari». Emanuele Zannini, ricercatore alla School of Food and Nutritional Sciences dell’University College di Cork (Irlanda), è il coordinatore del progetto europeo Smart Protein.

Professor Zannini, qual è lo scopo di questo progetto di ricerca?

Lo scopo è quello di aumentare le conoscenze necessarie affinché proteine alternative a quelle animali possano entrare a far parte della dieta alimentare. Ci concentriamo su leguminose e quinoa e lavoriamo anche su proteine da funghi, prodotte attraverso il riciclo di sottoprodotti di lavorazione di pasta, pane e birra. Con questi creiamo substrati su cui far crescere funghi da cui estrarre proteine che sono interessanti perché sono strutturate e ci aiutano a imitare la consistenza della carne. Naturalmente ci preoccupiamo anche di come queste proteine vengono prodotte, dal campo alla tavola.

Il progetto è centrato su fave, lenticchie, ceci e quinoa: perché avete scelto proprio queste quattro colture?

Fave, lenticchie e ceci erano leguminose molto diffuse in Europa, la carne dei poveri. Per quanto riguarda la quinoa, di cui qui in Europa cresce un parente selvatico, abbiamo studiato varietà che si adattano all’areale europeo. L’idea è di recuperare vecchie varietà per la loro re-introduzione attraverso il miglioramento varietale con metodi tradizionali. È un progetto di ampio respiro che parte dall’agricoltore, introduce tecniche di agricoltura rigenerativa, un’evoluzione di quella biologica, che suggerisce ampio uso di colture di copertura e di rotazioni, per arricchire il suolo, prevenire attacchi dei parassiti, ridurre la necessità di trattamenti. Le quattro colture sono state coltivate in prove sperimentali, selezionando le varietà più adatte. Ora dobbiamo passare alla semina in pieno campo. Il raccolto sarà poi trasferito ai partner che si occupano dell’estrazione delle proteine e del loro impiego.

Come avviene l’estrazione delle proteine?

Il nostro approccio è di usare sistemi blandi. Macinazione e separazione in acqua, questo ci permette di estrarre frazioni che non solo proteiche, ma anche di amido e di fibra. Poi, attraverso processi di fermentazione naturale, cerchiamo di modificare le proprietà strutturali e sensoriali delle proteine che, provenendo da un vegetale, hanno un sapore un po’ erbaceo. Con i funghi, invece, che hanno il sapore della cipolla o del dado, riusciamo a costruire in modo interessante il profilo sensoriale dell’alimento finale.

Chi produrrà queste proteine?

Sia nuovi coltivatori che aziende tradizionali, per diversificare le colture, ottimizzare le risorse, creare nuovi mercati. In questo progetto abbiamo diversi partner: l’azienda che farà il pesce vegetale già produce tonno. Il formaggio vegetale lo farà un caseificio austriaco. Sono aziende tradizionali che hanno colto un’opportunità di business. Coltivare il favino qui in Irlanda, dove abbiamo sperimentato che cresce benissimo, crea valore per gli allevatori di vacche da latte: possono vendere materia prima all’industria del latte vegetale, che è complementare a quello animale. Hanno la possibilità di aumentare il portafoglio prodotti ed essere meno soggetti alla volatilità del prezzo del latte.

Non c’è il rischio di costruire cibi ultra-processati con coloranti, additivi, aromi. Qual è il vantaggio nutrizionale di questa categoria di cibi?

L’industria alimentare vuole imitare in tutto e per tutto la struttura, l’odore, il sapore, l’aspetto dei prodotti convenzionali, rischiando di risolvere un problema ma di generarne altri. Se si usano frazioni proteiche ultra purificate, a cui si aggiungono altri ingredienti provenienti da altri continenti, è vero che la sostenibilità del prodotto finale viene meno. Ci sono sul mercato hamburger vegani che contengono 15/20 ingredienti. Il progetto Smart Protein ha anche questa finalità: arrivare a sviluppare alimenti minimamente processati che soddisfino le aspettative dei consumatori. Persino i consumatori più convinti della transizione proteica sono condizionati nelle scelte d’acquisto dall’appagamento sensoriale: colore, sapore, aroma. Il primo acquisto si fa per curiosità, ma il secondo solo se il prodotto è piaciuto.

Dal punto di vista di chi fa questa scelta per il rispetto degli animali, qual è l’attrattiva di una finta coscia di pollo o di un finto salame?

L’industria alimentare fa analisi di mercato e studi di neuro-scienza particolarmente sofisticati. Non dobbiamo convincere vegani o vegetariani, che hanno già fatto la loro scelta, ma i flexitariani ad avvicinarsi alle proteine alternative. Magari per soli 3 giorni alla settimana. Poter riconoscere qualcosa che è familiare e gradito, come la forma della coscia di pollo, è un modo subdolo, se vogliamo, per accompagnare chi ama la carne a scegliere qualcosa di diverso. Le scienze del comportamento ci aiutano a capire come alcune scelte commerciali possono condizionare l’inconscio dei consumatori al momento dell’acquisto.

Gli alimenti sostitutivi della carne o dei latticini costano ancora tanto, e questo è uno dei motivi per cui i consumatori non li acquistano. I costi sono alti perché sono ancora un prodotto di nicchia?

Direi che la domanda che ci dobbiamo porre è un’altra: è il prodotto vegetariano che costa di più o è il prodotto animale che viene sottopagato? Se noi dovessimo considerare tutte le esternalità che sono correlate alla produzione di carne e latticini, dovremmo pagarli il triplo. Però, se applicassimo il true pricing, il prezzo vero, su quali spalle andrebbe a ricadere? Su quelle dei consumatori, e non sarebbe corretto.

Come si può sostenere la transizione proteica?

Con l’intervento pubblico. In Europa ci sono 76 milioni di studenti e si spendono 82 miliardi l’anno nell’acquisito di cibo per le mense. Le istituzioni pubbliche attraverso gli acquisti sono in grado di condizionare l’offerta dei produttori agricoli, delle aziende alimentari, dei catering, ecc. E non solo variando i menu, ma anche, riducendo le porzioni. Oggi mangiamo troppo e male, dobbiamo ridurre le quantità e aumentare la qualità, migliorando nel complesso l’ambiente alimentare. Sono aspetti cruciali: non ci possiamo aspettare che il sistema produttivo privato introduca spontaneamente questi cambiamenti. Ma il pubblico, attraverso il suo potere di acquisto, può fare la differenza. Gli appalti alimentari vanno strutturati in maniera tale da premiare l’approccio virtuoso, non solo per le proteine alternative, ma anche per migliorare le condizioni di lavoro di tutti gli operatori, per elevare gli standard ambientali, per privilegiare la stagionalità, favorire i fornitori di prossimità, l’economia locale.
La dieta mediterranea non è lo stile dietetico ideale per i flexitariani? Non abbiamo già un modello pronto?
Lo abbiamo, ma non lo seguiamo più. È questo il problema: gran parte dei pasti vengono consumati fuori dalle mura domestiche. È il moderno stile di vita che ha messo da parte la dieta mediterranea.

Avete testato anche il gradimento della carne artificiale, quella coltivata in laboratorio?

No, non fa parte di questo progetto. È una tecnologia ancora poco matura, che potrà avere risvolti interessanti, ma al momento ha costi proibitivi, dell’ordine di 12/20 mila euro al kg. Questo non significa che gli studi non debbano essere portati avanti, anzi.

Avete pensato come chiamerete questi cibi? Salame vegetale sembra un ossimoro, almeno in italiano…

Il tema non è per niente banale, soprattutto in un paese come l’Italia che ha una tradizione gastronomica importante. D’altro canto, ci sono lobby che spingono per evitare che si generi confusione tra i consumatori. Certo è che se scrivo su una confezione “hamburger vegetale”, questo non può trarre in inganno. Senza prendere in giro la bistecca o il formaggio, si useranno nomi di fantasia che facciano capire al consumatore che cosa sta comprando.