La notizia della settimana è che anche le storie di Instagram, quelle che dovrebbero scomparire dopo un giorno, vengono catturate in rete e conservate insieme alla localizzazione degli autori.

Un marketing partner di Facebook, la HYP3R di San Francisco, secondo Business Insider ha tracciato segretamente 49 milioni di posizioni e storie degli utenti di Instagram, raccogliendo enormi quantità di dati per creare profili utente che includevano la posizione fisica degli utilizzatori, le loro biografie, gli interessi e persino le foto che avrebbero dovuto svanire dopo 24 ore.

Facebook, proprietaria di Instagram, ha confermato l’accaduto e la «violazione delle regole di Instagram», invitando il partner a desistere con una lettera.
Lo faranno? In genere le multe comminate ai giganti della rete dopo che sono stati scoperti, gli fanno solo il solletico. Tutte le aziende lo negano ma agire in questo modo gli serve per calibrare meglio pubblicità, annunci e Roi (return on investment).

Una massiccia raccolta di dati fatta per inserzionisti, rivenditori o persino hedge fund in cerca di informazioni preziose sul comportamento dei consumatori.

Un targeting snervante e invasivo secondo la logica del «più cose so di te meglio posso indurti nuovi desideri» è agito ogni giorno a dispetto delle leggi che vincolano le piattaforme social e i siti web a garantirsi il consenso esplicito dell’utente per raccogliere dati personali a fini pubblicitari o per conto di imprese terze.

È così che Gmail ci legge la posta, Messenger registra i messaggi audio e li trascrive, Alexa di Amazon ascolta le nostre conversazioni private, come pure Siri di Apple e Assistant di Google; FaceApp immagazzina i nostri volti, Grindr le informazioni sulle preferenze sessuali, Tik Tok raccoglie i dati di ragazzini non ancora tredicenni.

Benvenuti nella società della sorveglianza totale.

Le scuse sono sempre le stesse, i grandi gruppi registrano i nostri dati, acquisiscono i like e monitorano i follower, scelgono cosa farci vedere in base ai click precedenti e dicono di farlo per migliorare il servizio e farci accedere a un’esperienza personalizzata.

Ognuno di noi dovrebbe chiedersi se questa personalizzazione serva agli utenti o non sia piuttosto finalizzata a realizzare tecnologie tunnel per farci rimanere nei loro walled garden, i giardini recintati dei big player della rete, ma è difficile confutare che questa enorme raccolta di dati serva a creare eserciti di consumatori docili e disciplinati.

In parte realizzata da strumenti automatici, in parte affidata a eserciti di ragazzini sottopagati come avviene ad esempio in Cina grazie a programmi industriali che remunerano loro, la scuola e i maestri che si fanno promotori delle «vacanze di lavoro» dei baby-operai.

Un affaire venuto a galla grazie a un allarmante rapporto di China Labor Watch che sottolinea anche come i lavoratori siano obbligati a fare gli straordinari, i turni di notte e a subire maltrattamenti fisici e psicologici. Una sorveglianza commerciale, diversa per quantità e qualità da quella statuale esercitata sui corpi e sui desideri teorizzata da Michel Foucault, e dal controllo dei ritmi e dei tempi di produzione della fabbrica di Max Weber, ma ad esse strettamente collegata, che ci tiene lontani da contenuti di qualità e comunità resilienti al capitalismo delle piattaforme che monetizzano ogni click, e nutre, come nel caso di Cambridge Analytica, la macchina della propaganda usata per la Brexit e l’elezione di Trump, raccontata da Jehane Noujaim e Karim Amer nel documentario Netflix «The Great Hack».