«È presente in me una fobia: incappare in mondi umani che avranno il potere di imprigionarmi. Questa paura crea in me il bisogno di fuggire in posti dove solo la natura comanda, madre o matrigna che sia». Nel ventre del pianeta, in una grotta delle Alpi Apuane a 650 metri di profondità, uno scultore scappa dal mondo, dalla massa, e trova un rifugio. Ha in mente un’impresa, realizzare «Il gigante nascosto», un’enorme statua praticamente invisibile al resto dell’umanità. Con le parole fuoricampo dell’artista Filippo Dobrilla (tratte da sue lettere, diari e interviste lette da Alessandro Benvenuti), ha inizio il film di Tommaso Landucci, Caveman – Il gigante nascosto, progetto premiato agli Atelier del Milano Film Network nel 2019 e proiettato in anteprima lo scorso anno alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori. Se molti documentari esibiscono un mondo e, dentro di esso, intercettano chi vi abita, in questo ritratto avviene quasi l’opposto.

È LANDUCCI a incontrare Dobrilla, affascinato dal mistero che avvolge quell’eccentrico artista, da quella specie di invisibilità che produce racconti leggendari, al limite dell’inverosimile. Ed è in questo incrocio casuale di traiettorie e di transiti, che il regista scopre un mondo, quello privato dell’artista, fatto di opere, di demoni e di relazioni brevi, perché come confessa Dobrilla: «La mia vita mi ha sempre posto ad essere abbastanza solitario. È un mio limite. Si torna lì, un po’ sempre a quell’egoismo di stare da soli». Non dunque l’artista che attraverso la sua opera si apre alla collettività, in qualche modo modificandola, bensì l’individuo che cerca un riparo nella grotta, che si fa scudo con i suoi manufatti, che forse riesce a rintracciare un flebile senso dell’esistenza senza condividerlo con altri.

QUELLA che appare allo spettatore, è una vita dominata dalla fisicità, dal contatto stretto con la terra e con gli animali, ma anche dalla decadenza del corpo, dalla malattia, dall’improvviso attendere la morte, dalla fine. E poi le opere, la manualità, il marmo, la polvere, l’informe che prende forma, i demoni, il sesso, la solitudine, gli eroi di libri letti un’epoca fa, il buio e la luce. Una vita e le opere che non accedono alla dimensione pubblica dell’esistenza, a parte qualche incursione sporadica nella quale, peraltro, Dobrilla sembra distante, restio a concedersi, forse per timidezza, forse per disinteresse, forse per una radicale sensazione di inadeguatezza. Una doppia impenetrabilità, quella di un mondo che pare non accoglierlo del tutto e quella di un individuo che non accetta di essere assorbito.

DUNQUE, è al documentario stesso che viene affidato il compito di rendere plurale il singolare, di trasformare pensieri privati in riflessioni collettive. Landucci, qui al suo primo lungometraggio dopo aver diretto alcuni corti e collaborato con Claudio Giovannesi in Alì ha gli occhi azzurri e Luca Guadagnino in A Bigger Splash, attinge a materiali d’archivio, a filmini amatoriali, alle poche persone che gravitano intorno a Dobrilla. E poi segue l’artista, cerca di cogliere i segnali, le espressioni, ottiene persino delle parole, perché la disposizione alla complicità non manca. Il mistero di quell’uomo, però, non si risolve, la vera identità è come se restasse celata nella grotta, nel fermo silenzio dell’opera e del suo artista. Al regista non resta altro che prendere congedo da una persona in transito, apparsa e scomparsa, oramai destinata a esistere solo nei racconti leggendari di chi abita nei mondi umani da cui si voleva fuggire.