Giuseppe Cavalli a Senigallia nel 1940, foto-ritratto di Gemmy Tarini

 

Di una vera e propria autocoscienza fotografica, in Italia, si può parlare solo a partire dal secondo dopoguerra, quando essa si allinea a quella cinematografica che, con un apporto filosofico ben più deciso (e fra gli altri quello di un Galvano della Volpe), presto coagula nella nozione di «specifico filmico». Con una sfasatura di almeno mezzo secolo, alla fotografia e ai suoi specifici devono viceversa pensare i fotografi medesimi che al presente, in piena epopea neorealista, si dividono tra fautori del «documento» (in sostanza l’attività di reportage) e, invece, della cosiddetta foto «artistica»: motivo ulteriore di divisione sta nel fatto che i primi non hanno in genere preoccupazioni d’ordine teorico, appagati dal fatto di essere dei testimoni ovvero dei militanti, mentre i secondi hanno il grande problema di emanciparsi dal modello che li orienta e nel frattempo li fa sentire subalterni, scilicet la pittura.
Da una simile e tuttavia molto fertile contraddizione muove la produzione critica di un maestro, Giuseppe Cavalli (Lucera 1904-Senigallia 1961), al cui nome è legato un doppio e fondativo frangente della autocoscienza fotografica, prima, nell’aprile del ’47 a Milano, la firma in calce al manifesto del Gruppo «La Bussola», poi, sette anni dopo a Senigallia, la fondazione del Gruppo «Misa», in cui Cavalli funge sia da promotore sia da socratico mallevadore di due allievi straordinari, pur dagli esiti stilistici di segno opposto e complementare, Ferruccio Ferroni e Mario Giacomelli.
Ora, nel sessantennale della morte del maestro è pubblicata una scelta di scritti, , Fano, pp. 63, s.i.p.) che riunisce quindici testi comparsi su «Ferrania», più o meno un quarto della sua intera produzione stando al regesto bibliografico annesso al bel catalogo della mostra romana del 2006 in Palazzo Braschi, Giuseppe Cavalli fotografie 1936-1961 (a cura di Daniele Cavalli, Anita Margiotta, Federica Pirani, Gangemi editore), e qui va ricordato che l’ordinamento della odierna plaquette da decenni era predisposto dal fedelissimo Ferroni, mancato nel 2007.
Avvocato di professione e raffinato umanista, garbato nello stile e persino negli affondi polemici, lettore di Alberto Savinio e partigiano di una sottile ironia, Cavalli non persegue nei suoi scritti una estetica bensì una poetica. Circa l’estetica, infatti, egli rinvia preventivamente al Breviario (’13) di Benedetto Croce doppiato, nella fattispecie, da un suo braccio secolare nelle arti figurative, il Saper vedere di Matteo Marangoni (’33), fedele all’idea che l’arte sia il risultato di una pura intuizione lirica e vada indenne pertanto da qualunque altro apporto, spurio e impoetico. Innanzitutto preme a Cavalli vedere garantita non tanto una qualche «poeticità» del linguaggio fotografico quanto la sua indipendenza sia dal pittoricismo (non è detto che egli amasse, per esempio, gli artifici tenebrosi e paracaravaggeschi di un Luxardo) sia, è ovvio, dal contenutismo dei reporter dichiaratamente neorealisti. Quanto a ciò, nello stesso momento in cui Luigi Crocenzi accompagna Vittorini per fotografare in re, alla maniera di un racconto parallelo, i luoghi di Conversazione in Sicilia, Cavalli (su «Ferrania», n. 3, del marzo 1950) può scrivere: «Non dico, intendiamoci bene, che non ci siano felicissimi casi di vere istantanee. (…) Ma sappiamo tutti che simili casi non sono frequenti e che all’atto pratico, di solito, molti fotografi la bella istantanea non la trovano: la creano». È come se dicesse che costoro, tutti quanti i fotografi, le loro immagini alla fine se le costruiscono.
E come costruisce, dunque, le proprie immagini il fotografo Giuseppe Cavalli? Artista consapevole dei propri mezzi, uomo di lenta metabolizzazione dei dati percettivi, il suo genio è sintattico e subito si coglie nella impaginazione mai ovvia e, anzi, condotta al silenzioso sabotaggio degli automatismi visivi: sono foto per così dire silenziose, quasi prive di timbro e invece occupate in prevalenza da una panoplia tonale, per delicate velature dei bianchi e dei grigi, come nel caso davvero magistrale di Muretto al mare (’50) o di Tristezza a Bergamo (’53). Rare, dileguanti, solo per eccezione in primo piano, sono le presenze umane, che non hanno però né l’imponenza né la staticità di certo Novecento neoclassico tante volte richiamato quale suo orizzonte d’attesa, perché semmai il fotografo appartiene alla famiglia degli Antonio Donghi e dei Francesco Trombadori, perciò ad un Novecento più sulfureo e segreto, misterioso anche nella piena luce della normalità quotidiana. (È vero che adorava Giorgio Morandi ma, sentendolo troppo grande e astrale, quasi non osava citarlo).
Cavalli è capace di una sua esattezza traslucida, al limite anche documentaria, ed è noto che Ranuccio Bianchi Bandinelli gli affidò a suo tempo la riproduzione della Porta del Paradiso del Battistero di Firenze in corso di restauro; ma Cavalli è capace, altrettanto, di trarre da un oggetto minimo una sua asciutta solennità come nel caso, ed è un caso di perfetta spoliazione, de La pallina (foto del’49 omaggiata l’anno successivo da La palla, che resta uno degli scatti più classici di Ferruccio Ferroni).
Una volta capitò all’allievo più indocile, Mario Giacomelli, di improvvisare un ricordo del maestro che non potrebbe essere più penetrante: «L’avvocato era giovane, ma sembrava che portasse sulle spalle il peso di secoli, era pieno di entusiasmi, progetti, creatività, ma il tutto era venato di quella sottile malinconia che hanno solo i vecchi». Questa è la luce adusta che occupa le foto di Giuseppe Cavalli nel soffuso dilagare dei bianchi e dei grigi in uno stile, si potrebbe dire, di costante «chiarismo». Giuseppe Cavalli aveva preso la sua strada di fotografo una volta per sempre, scelse l’arte in luogo del reportage temendo («Ferrania», n. 9, del settembre 1948) che se non l’avesse fatto si sarebbe venuto a trovare nel dilemma «dell’acrobata che cavalca due destrieri veloci, i quali cominciano a correre in direzioni divergenti»: il maestro non aggiunse che tale è il destino degli artisti eclettici o insomma di quegli opportunisti negati alla intransigenza che era stata il suo tratto elettivo.