«Conosci tu il paese in cui fioriscono gli artisti?». Non serve poi molta fantasia per adattare il celebre verso di Goethe al piccolo borgo di Anticoli Corrado che fece innamorare di sé i pittori stranieri dell’Ottocento. Per i Romantici tedeschi l’Italia, con le sue amene contrade, le sue campagne e i suoi poggi pittoreschi, era donna, e il loro amore per un paese come Anticoli era duplice, spirituale e carnale: essi amarono l’ideale che questo paesaggio incarnava e più concretamente la bellezza delle sue abitanti. Ma la fortuna «artistica» del borgo non terminò qui: per tutta la prima metà del Novecento furono molti i pittori che lo scelsero per stabilirvi i loro studi, e fra questi, ultimi in ordine di tempo, alcuni allievi di Felice Carena, i quali avrebbero fatto ben presto cenacolo, e cioè Fausto Pirandello, Giuseppe Capogrossi e Emanuele Cavalli.
Una preziosa mostra curata da Manuel Carrera, Emanuele Cavalli Un protagonista della Scuola romana, rende oggi (fino all’8 dicembre) la debita luce al pittore negli spazi del Civico Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, poco distanti da dov’egli visse e lavorò fino al 1946. Si tratta di due sale, sufficienti, tuttavia, a ripercorrere il lavoro di Cavalli dalla sua prima tela documentata, Testa (1921), per la quale posò l’amico Bernardino Toppi, in cui la ricercatezza dell’accordo dei toni, che caratterizzerà la totalità della sua ricerca pittorica, ha ancora un che di allettevole e lusinghiero, niente affatto spirituale, alle ultime, dipinte negli anni settanta, di una visione ormai depurata e sottile.
Se ancora La Cesarina (1921) fa quasi venire in mente la tipologia di certi ritratti veneziani del Cinquecento, già nel quadro esposto accanto, Ritratto di Fausto Pirandello, che è del 1928, la gamma si fa più austera e l’attenzione ai valori compositivi più spiccata. Degli anni trenta, invece, sono L’amicizia (1933), il Ritratto di Vera Haberfeld (1932) e il magnifico Bagno nel fiume (1937), nei quali si osserva come l’influenza ora di Piero della Francesca, ora dei Primitivi italiani, non dirotti ma vada soltanto precisando il fondo della sua ricerca, che è lo studio degli accordi tonali e dei problemi di composizione. Poi vediamo i bellissimi ritratti di Maria Letizia degli anni quaranta: Maria Letizia (1940), su due toni principali, il verde dominante e il rosa sviluppato nella camicetta, nelle labbra, nelle gote; e Ritratto di Maria Letizia (1949), accordo più complesso su una nota gialla isolata e poi una variazione sulle gamme del verde e dell’azzurro.
Ma accanto ai quadri con figure umane, Cavalli dipinse molte nature morte. Come le componeva? «Disponendole come già aveva appreso a fare negli anni Trenta anche con le figure, come note musicali su un pentagramma», nascevano così «composizioni dal valore pienamente musicale, sinfonie, toccate e pavane» (Carrera); sicché le sue tele dovevano somigliare a quelle musiche scritte per l’occhio di alcuni maestri polifonici olandesi nelle quali certe sottigliezze, indistinguibili all’orecchio, erano visibili soltanto leggendone la partitura, come avviene nelle Nozze di Cana di Orlando di Lasso.
Toccate, si diceva, sinfonie: anche dal Rinascimento, d’altra parte, Cavalli aveva appreso schemi e moduli compositivi, che erano natività, sacre conversazioni. Per uno studioso d’esoterismo quale era lui, la musica non poteva che essere scienza pitagorica (ascoltava Bach, non la musica emotiva di Wagner, di Rimskij-Korsakov o di Puccini), fatta di spazi e di ritmi: un’architettura. In ciò somigliava al grande Balthus.
Davanti allo specchio (1957) e Doppio ritratto (1939) sono raffigurazioni decantate, i cui modelli reali, sollevati dal transeunte, vivono sospesi in una luce immobile e zenitale, di nudità cosmica. Guardando uno dopo l’altro, anno dopo anno e decennio dopo decennio, questi quadri, Cavalli appare un pittore classico nel senso più puro del termine, cioè nell’aver realizzato la più grande varietà d’esiti all’interno della più ristretta gamma possibile di toni e di forme. Amava lavorare nel suo studio perché «l’aria aperta disperde, l’eccessiva luce annulla il colore, nello studio ogni piccolo particolare acquista vita, ed è ricco di connotazioni pittoriche».
La storia dell’arte novecentesca è stata un susseguirsi di sommosse. Cavalli osservava l’avvicendarsi degli idoli. Alla morte di Capogrossi, che negli ultimi anni aveva seguito i tempi, avvicinandosi all’informale, scriveva ad un amico, con certo rammarico: «Dal 1919 quanta parte della vita giovanile, degli amori, delle speranze di un tempo, delle inquietudini per la formazione nel cammino dell’arte, tutto finito, molto di questo finito da tempo anche per lui, forse dimenticato». Talora dalla piazza giungeva uno scampanio tumultuoso ad annunciare la morte di un papa o di un re, ma il pittore non vi badava: nel chiuso del suo studio, accanto alle bottiglie, alle ciotole e alle sfere che avrebbe ancora scomposto e ricomposto in innumerevoli nature morte, egli restava fedele al quieto ticchettio del suo orologio.
Ma non per questo la sua pittura mancò di evoluzione. Basta guardare le due tele accortamente giustapposte dal curatore, cioè Melograne (1937) e Sfere (1980), per accorgersi di come egli fosse giunto infine a una suprema decantazione della sua arte in una purezza ormai trascendentale dei volumi. Le consuete variazioni tonali, sottili e austere, si arricchiscono negli ultimi lavori di gamme più squillanti che portano agli equilibri arditi del Nudo con i guanti (1972) o del Nudo sdraiato (1972), dove l’eco del Rinascimento o dei primitivi, ormai non più visibile esternamente, è tutto internamente rimeditato; sebbene non si possa fare a meno di pensare che, se l’uovo della Pala di Brera fosse caduto dalla conchiglia su una umile tavola di legno, avrebbe trovato in Cavalli il suo pittore ideale.
Concluso il giro delle due sale, uscendo dal museo si trova una stradicciuola che scende per stalle e casupole che dirupano in basso. Lì si trova la parte vecchia del paese dove erano un tempo gli studi degli artisti. Da lì dovevano risalire quelle popolane robuste che i pittori stranieri in sosta nel paese, come Edward Okun, amavano ritrarre. Una di queste scene è raffigurata da Cavalli nel quadro Case di Anticoli Corrado (1942). A parlar con la gente che abita ancora il piccolo borgo si sente una continuità di memorie e ricordanze. E si sente la persistenza delle cose e il tempo sembra maturare lentamente, come se, invece di procedere a strappi e scossoni, seguisse un ritmo interno, intransigente e severo. Ad un medesimo ritmo sembrò ubbidire la pittura di Cavalli