Oltre a riconoscere in Tante piccole sedie rosse (traduzione di Giovanna Granato, Stile Libero Big, pp. 304, euro 18,00) molti dei temi frequentati da Edna O’Brien durante i dodici lustri della sua carriera artistica, i lettori che da tempo ne apprezzano lo stile audace e l’efficacia mimetica potranno constatare come la prosa della più illustre scrittrice irlandese vivente sia ormai forte di un governo straordinariamente sicuro della trama, della psicologia dei personaggi e dell’avvicendamento dei punti vista.

Non a caso il libro è maturato nell’arco di ben dieci anni, quelli che, per l’appunto, lo separano dall’uscita del romanzo precedente, La luce della sera. E non sorprende nemmeno che Philip Roth, da sempre fra i più celebri estimatori di O’Brien, al punto da definirla «fra le scrittrici di lingua inglese, quella dotata di maggior talento», abbia salutato Tante piccole sedie rosse come «il capolavoro di una vita». La felice traduzione di Giovanna Granato è capace di sintonizzarsi con un afflato narrativo spontaneo, lucido e accattivante, anche quando i dettagli emotivi, la profondità delle riflessioni e l’intimità straziante di certe sofferenze, comprese quelle fisiche, fanno della lettura un’esperienza forte e a tratti disturbante.

Del resto, si è parlato di Edna O’Brien come la Françoise Sagan irlandese, grazie al fatto che, a partire dalla scandalosa Trilogia delle ragazze di campagna (le cui copie furono bruciate da alcuni parroci davanti alle chiese), ha articolato una incisiva denuncia sociale contro gli abusi di ogni tipo.
Eppure le prime centotrenta pagine non fanno presagire niente di drammatico, anzi. Immerse in un brioso paesino di campagna, beneficiano della medesima commistione di generi che caratterizzerà il seguito. E fra suggestioni favolistiche e mitologiche, la storia recupera figure e circostanze dalle tradizioni rurale, comica e folcloristica irlandesi, e costruisce bozzetti attraverso cui spesso si esprime una satira mordace e effervescente. Ma questa prima parte si chiude con un’inaspettata svolta violenta, persino agghiacciante, e le due parti successive sono ambientate in latitudini diverse, dove continuano a incrociarsi i destini dei tanti transfughi ai tempi della globalizzazione: prima nella Londra multietnica dei lavoratori più sfruttati (con una breve parentesi in un allevamento di cani nel Kent) e infine all’Aia, nei Paesi Bassi, e più precisamente presso la corte per i crimini internazionali.

La geografia si muove insieme al paesaggio narrativo e lo asseconda. L’arrivo nell’idillio bucolico irlandese di un personaggio misterioso e carismatico, poeta, sessuologo e guaritore New Age, proietta infatti il romanzo dentro una precisa cornice storica: quando dell’uomo verrà svelata la vera identità, quella di un efferato criminale di guerra, il romanzo assumerà uno scarto brusco nei toni, che si faranno più gravi, psicologicamente più densi e a volte macabri. Il modello sul quale è ricalcato l’impostore fuggiasco è evidentemente Radovan Karadžic, comandante dell’esercito serbo-bosniaco durante la guerra dei Balcani e famigerato «macellaio di Bosnia», vissuto a lungo in clandestinità e infine condannato dal tribunale dell’Aia per genocidio e crimini contro l’umanità, soprattutto in relazione all’assedio di Sarajevo, al massacro di Srebrenica e alla pulizia etnica contro i civili non serbi.
Il titolo stesso, come ricorda l’epigrafe, è ispirato alle undicimilacentoquarantuno sedie che il 6 aprile 2012 furono poste lungo il corso principale di Sarajevo: «Una sedia vuota per ogni abitante ucciso durante i millequattrocento giorni dell’assedio. Le seicentoquarantatre sedie più piccole rappresentavano i bambini uccisi dall’artiglieria pesante e dai cecchini appostati sulle montagne circostanti.»

In realtà la vera protagonista del romanzo è Fidelma McBride, la «bella del villaggio», più degli altri abitanti di Cloonoila vittima del fascino dell’oscuro straniero, il dottor Vladimir. Addirittura, in un momento di particolare sconforto dovuto a un matrimonio triste e senza figli, decide di averne uno proprio dal nuovo arrivato. Il compimento di questo proposito avrà ripercussioni tragiche sulla sua vita e, come in un sortilegio fiabesco, segnerà indelebilmente il paese, Cloonoila, il cui nome significa in gaelico «prato macchiato».

Dopo aver riparato a Londra e a ridosso di mille asperità, Fidelma troverà la forza di avviare un faticoso percorso di riscatto dai traumi subiti e dal senso di colpa iscritto nella sua coscienza di donna cattolica. Il finale la ritrae attivista in un centro per i rifugiati, sotto la scritta «Aiutiamo le vittime a diventare eroine», dove significativamente riesce a sentirsi di nuovo a casa.

Accompagnano la trama una galassia di riferimenti letterari, insistenti e stimolanti: dall’Iliade all’Eneide alla Bibbia alle Upanishad, da Platone a Shakespeare, da Huckleberry Finn a Dracula, da Yeats e Musil a Wallace Stevens a Emily Dickinson, passando per le canzoni popolari irlandesi e per il Playboy of the Western World, di cui, fra le altre cose, il romanzo è una riscrittura contemporanea dal punto di vista femminile.

A questo apparato di intertesti si intreccia un ordito metaletterario di forte valenza simbolica. «Allora la letteratura non basta», chiede un partecipante a un gruppo di lettura di cui Fidelma è presidente. E lei: «Vorrei che bastasse… ma non è così… certe volte mi sembra di soffocare». Si chiude con questo guizzo di cupezza l’episodio emblematico della questione chiave del romanzo: la potenza del racconto nella costruzione del sé e dei nostri rapporti con gli altri.

La capacità di intessere storie può davvero far sì che un individuo diventi ciò che racconta di essere agli occhi di chi si offre all’altro senza un’opportuna dose di scetticismo. Risuona il messaggio di Casualties of Peace e di molta della fiction di Edna O’Brien: l’innocenza è premessa di passioni travolgenti che troppo spesso si traducono in mero masochismo. L’autenticità dei racconti e l’innocenza di chi li ascolta prendendoli per buoni sono messi a tema ovunque nel romanzo: un ricercato decide di fermarsi a Cloonoila sotto mentite spoglie perché in quel luogo e in quella gente percepisce una «innocenza primitiva», ormai perduta nel resto del mondo; la voglia di credere caratterizza il trasporto di chi partecipa al gruppo di lettura come le meditazioni di Suor Bonaventure; una volta scoperta la vera identità del «macellaio di Bosnia», gli abitanti del posto si sentiranno una comunità di «imbecilli», per essersi fatti «abbindolare dal suo mesmerismo, dalle sue fesserie»; la stessa Fidelma pare conquistata da Vladimir in virtù di cliché per nulla irresistibili. E quando gli si concede, vive l’unione come se entrambi fossero personaggi letterari: «lei e il guaritore, lei e lo straniero, come amanti, adesso, come in un racconto, come in un mito». Troppo tardi si renderà conto di quanto il seduttore abbia fatto affidamento sulla sua «offensiva retorica», e riuscirà a descriverlo come «un uomo sull’orlo della propria creazione».

Essere belle non è mai facile nelle opere di Edna O’Brien, genera invidia e appetiti sinistri. Come se non bastasse, poi, a meno che l’uomo non decida diversamente, la serenità economica per le donne resta un miraggio. E d’altro canto il codardo, sembrano suggerire alcuni passaggi, è tanto colpevole quanto il prevaricatore: il marito di Fidelma è cieco nel ripudiarla nonostante l’immane violenza di cui lei è stata vittima; il‘caporale sotto cui lei lavora a Londra, è al tempo stesso sfruttato e sfruttatore; nella loro adesione kakfiana alle norme, i secondini del carcere dove Fidelma si reca a visitare lo smascherato Vlad diventano meri aguzzini. E funzionano come figure di un monito antico .