Visioni

«Cattività», un film di Bruno Oliviero racconta l’esperienza della detenzione

«Cattività», un film di Bruno Oliviero racconta l’esperienza della detenzioneUn fotogramma tratto da «Cattività»

Martedì 15 nell'ambito della Milano Movieweek In collaborazione con Mimmo Sorrentino e il suo progetto al carcere di Vigevano «Educarsi alla libertà»

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 13 settembre 2020

Lo chiamano «teatro partecipato» per sottolineare il legame con il metodo etnografico dell’osservazione partecipata o partecipante in cui chi osserva, pur rendendosi consapevole del proprio posizionamento, entra in contatto con la singolarità dell’altro, prova a mettersi nei suoi panni, ad avvertire emozioni e sentimenti di chi ha di fronte. È a questo metodo che Mimmo Sorrentino, drammaturgo e regista teatrale, impronta il suo lavoro con le comunità che incontra e con cui costruisce percorsi creativi, laboratori e performance pubbliche.

SI TRATTA di una pratica di scrittura collettiva che nasce dal dialogo e dal confronto con l’alterità, da un’etica della collaborazione che riconoscendo distanze e prossimità consente di dare vita in gruppo a qualche cosa che non potrebbe nascere dal singolo.
Nel 2014, Sorrentino ha iniziato a lavorare al progetto «Educarsi alla libertà» che, insieme a un gruppo di detenute nella sezione di alta sicurezza del carcere di Vigevano, ha avuto come esito tre spettacoli: L’infanzia dell’alta sicurezza, Sangue e Benedetta. Il filmmaker Bruno Oliviero ha seguito questa esperienza e ne ha tratto un film, Cattività, scritto con Sorrentino stesso e Luca Mosso. Il film sarà proiettato in prima visione martedì 15 al Teatro Franco Parenti nell’ambito della Milano Movieweek in collaborazione con il festival Filmmaker.

LA MACCHINA DA PRESA di Oliviero segue le prove, i laboratori preparatori, il dietro le quinte e le messe in scena in istituti penitenziari, all’università statale di Milano, alla scuola di teatro Paolo Grassi, al teatro Palladium a Roma, alla Primavera dei Teatri a Castrovillari. Vediamo le detenute lavorare con impegno e poi condurre a propria volta seminari con ospiti esterni al carcere, incontrare il pubblico ammirato e commosso, diventare protagoniste di un percorso di presa di coscienza ed emancipazione catalizzato dall’arte. L’alta sicurezza, spiega un cartello a inizio film, è un regime detentivo che si applica agli appartenenti alla criminalità organizzata per separarli dagli altri detenuti e limitarne i rapporti con l’esterno.

Partecipare al laboratorio è dunque per le donne coinvolte un’occasione rara di contatto con un mondo agognato ma anche difficile da affrontare. In una scena, due detenute-attrici sono sedute in un camerino di fronte a una parete di specchi e una dice: «Ci stiamo godendo lo specchio anche se l’immagine che vediamo non ci convince, è troppo realistica». Confrontarsi con il mondo esterno significa infatti trovarsi di fronte all’immagine di sé riflessa nello sguardo del mondo che può essere difficile da riconoscere e accettare.

MA L’INCONTRO con il mondo esterno è solo l’ultimo passo di un percorso a tappe che inizia con la condivisione della propria storia all’interno del gruppo condotto da Sorrentino che in una scena spiega: «Ho chiesto loro di raccontarmi la loro infanzia e poi mi sono inserito con la mia scrittura nello iato tra ciò che avevano detto e ciò che non sapevano di aver detto». Se la traduzione della propria parola singolare in testo da porgere alla collettività è già un’esperienza «drammatica», che permette a ciascuna di osservarsi come dall’esterno, il dispositivo teatrale fa un ulteriore passo avanti, mescola le carte e affida ogni racconto alla voce di una compagna-attrice: «Interpretare la storia dell’altra è viverla», dice una di loro con lo sguardo di chi, attraverso il rispecchiamento e la reciprocità, ha vissuto una rivoluzione della coscienza.

Ogni donna racconta la propria perdita dell’innocenza, parte dal registro mitico dell’infanzia per poi passare al piano tragico delle morti a cui ha assistito. Non tutte ce la fanno ad affrontare fino in fondo un percorso che scava nel profondo, che costringe ciascuna a riconoscersi prigioniera di un carcere interiore fatto di vincoli con uomini violenti e logiche aberranti del crimine organizzato.

QUALCUNA LASCIA, qualcuna invece si aggrappa alla possibilità offerta dall’arte come ad un’ancora di salvezza e respira aria nuova. In Cattività, il cinema si mette al servizio del teatro e il teatro al servizio di donne decise a riconquistare la propria umanità.

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