«Le mie fotografie all’epoca», diceva Enrico Cattaneo – nato a Milano nel 1933, scomparso lo scorso 5 luglio – in un’intervista del 2016, «non erano granché, ma adesso non puoi fare la storia dell’arte senza le mie fotografie». Non era un giudizio di qualità, questo, ma un appunto sul ritorno di interesse sul suo sessantennale lavoro di documentarista nel mondo dell’arte. Si deve all’occhio acuto e mai invadente di Cattaneo, infatti, la narrazione visiva più partecipe di molti dei fatti artistici accaduti in Italia fra la metà degli anni cinquanta e i cinque decenni successivi. Una passione nata quasi per caso, la sua, durante gli studi di ingegneria al Politecnico di Milano, che lo avevano portato rapidamente dalla fotografia amatoriale al professionismo e, di lì, al mondo dell’arte.
Erano stati Ferroni, Guerreschi e gli altri del cosiddetto gruppo del Realismo Esistenziale milanese, ma anche Ossola e Luporini, ad averlo instradato verso il mondo degli artisti, divenuti nel frattempo suoi amici: in quello scorcio degli anni cinquanta li accomunava, oltre alla passione per il jazz, un’attrazione per le nebbiose periferie di Milano dove allignava il disagio sociale. Presto questa affinità elettiva si sarebbe trasformata in un lavoro di riproduzione delle opere d’arte e, soprattutto, di testimonianza dei luoghi dell’arte contemporanea: racconta gli studi degli artisti, poi le inaugurazioni e le mostre, con una curiosità particolare per il pubblico dei vernissage. Sarebbe passato poco tempo, però, perché quel mondo esplodesse scendendo nelle piazze con grandi performance, a cui Cattaneo assiste fotografando una stagione irripetibile di cui restano tracce solo nel suo sterminato archivio.
I galleristi stessi lo capiscono presto e lo assoldano per fotografare opere, azioni e allestimenti in città e in galleria: dalla Galleria delle Ore all’Apollinaire, fino a Giorgio Marconi. Il Festival del Nouveau Realisme, oltretutto, viene pianificato e organizzato nell’appartamento di via San Gregorio dove andrà ad abitare nel 1973, riempiendolo di foto e di opere donate dagli amici artisti, oltreché di una coltre di fumo che, ammetterà Enrico stesso, diventerà quasi un «classico» della sua iconografia: notti insonni in camera oscura, indefessamente legato alla stampa a mano mai demandata a terzi, per tenere botta al ritmo frenetico di una città in trasformazione e che non ha tempo da perdere, e tante, tantissime sigarette. Un lavoro talvolta su commissione, ma soprattutto un lavoro disinteressato di testimonianza del proprio tempo, giocando la scommessa che prima o poi tutto quello che aveva fotografato sarebbe tornato di interesse.
È tuttavia riduttivo circoscrivere il ruolo di Cattaneo al merito del documentarista, che ne farebbe una neutra testimonianza, quando il suo era invece un intenso occhio critico verso i luoghi e la vita delle forme. Lo aveva ribadito Enrico Crispolti, a un convegno del 2017, sottolineando come Cattaneo sapesse leggere la scultura dei suoi coetanei nella sua valenza ambientale: il lungo sodalizio con Mauro Staccioli, seguito pazientemente nella messa in opera dei suoi grandi «segni» nello spazio, nel loro rapporto con l’ambiente urbano, ne sono la testimonianza emblematica, così come le «messe in scena» dei Processi di Alik Cavaliere e la cronaca delle grandi mostre di scultura nei centri storici, da piazzetta Reale a Milano al centro storico di Parma, all’inizio degli anni settanta, fino alla grande mostra-compendio della scultura contemporanea di Marchiori e Carandente alla Biennale del 1972. Dallo sguardo a luce radente sulle superfici primitive di Giancarlo Sangregorio alla traduzione in segno grafico delle grandi sculture di Carlo Ramous, al cupo mondo di Mino Trafeli, il suo modo di restituire i valori plastici e le strutture nello spazio come partecipi di un luogo e da percorrere all’interno di questo, era un implicito commento destinato a instradare la lettura critica dei fatti figurativi. Cattaneo ne aveva dato prova in occasione di Volterra ’73 di Crispolti, dove si erano dispiegate ad ampio raggio le possibilità offerte dalla ricerca plastica di una vivace stagione sperimentale: indimenticabile il racconto visivo de Le morte stagioni, la prorompente installazione di stampi da caccia di Valeriano Trubbiani appesi a lunghe funi calate dalla torre del porcellino, di cui lo scultore aveva fatto un intero libro usando tutto il rullino scattato da Cattaneo, riproducendo fedelmente persino la confezione con cui il fotografo gli aveva consegnato quelle stampe.
È importante ripensare all’occhio critico di Cattaneo: è l’unico antidoto alla cosmesi delle operazioni nostalgia, che tradirebbero lo spirito austero e concreto di chi ha fatto della fotografia, sociale prima e di vita artistica poi, un momento di impegno civile. Per Enrico, infatti, fotografare quello che stava accadendo è stato un impegno preso spesso in prima persona: lui che non era un viaggiatore, si era spostato da Milano soltanto quando accadeva qualcosa che meritava di essere fotografato. E così sarebbe stato fino agli inoltrati anni Duemila, quando lo scultore e scrittore Stefano Soddu lo convince a imbarcarsi nell’impresa dei Ritratti di studio: visite negli studi degli artisti interpretate dalla penna di Stefano e dalla reflex di Enrico. In quasi dieci anni e tre libri avevano offerto una irripetibile mappatura emotiva di luoghi e protagonisti.
Tutto questo aveva indotto il documentarista alla sperimentazione creativa, in cui inventava mondi visionari oppure usava gli stessi medium da camera oscura come supporto per operazioni espressive: con larghe pennellate di acido aveva inventato dei profondi paesaggi che, nella sfocatura, parevano grandi spazi colti in movimento. Reinventando con umorismo i modi dello «styill life» aveva trasformato una serie di attrezzi da officina in comici e spaventati guerrieri giganteggianti su paesaggi surreali. Frattanto le fabbriche stavano andando in dismissione risvegliando la sua curiosità per i luoghi dell’abbandono: Cattaneo le visita come se si trattasse di una mostra d’arte contemporanea, proiettando su quello scenario la sensibilità maturata a contatto con l’avanguardia. Era stato divertente, a suo tempo, riconoscere eco di Gianni Colombo nei controsoffitti sfondati della Magneti Marelli, o Gianfranco Pardi in certi contorcimenti dei laminati metallici. È qui che ci si accorge che sotto la scorza del burbero esistenzialista Enrico Cattaneo aveva uno sguardo ironico sul mondo: della sbavatura e dell’imperfezione aveva fatto una ragione espressiva. Con inesausta curiosità, egli era stato non solo un testimone, ma un disincantato interprete del proprio tempo.