Erano gli anni Sessanta. Il fido registratore Geloso a bobine caricato sulla Cinquecento bianca, un buon rifornimento di sigarette, una cartina del territorio riempita di indicazioni a matita, a indicare percorsi e snodi fondamentali per la ricerca. Luoghi già frequentati, posti da riprendere in considerazione per ulteriori ricerche. Poi via, un paesino dopo l’altro, una frazione aggrappata a uno spunzone di roccia o nascosto dietro alle colline. Uno in fondo a una vallata. Poi lei, la ragazza col cappello e la voce fascinosa sempre più arrochita, Caterina Bueno, scendeva dalla macchinina affaticata, e iniziava approccio-trattativa con quella gente incuriosita e spesso un po’ ispida. Sapeva parlarci, non li considerava bizzarre rappresentanze esotiche di un mondo contadino che andava già sparendo, ma, da musicista ricercatrice anarchica e libertaria qual era, «alberi di canto», come dicono gli antropologi. Testimoni. Gente che poteva ancora conservare una scheggia melodica pregna di significati da decrittare un attimo prima che la scomparsa biologica se la portasse via.
Caterina era bella, ma aveva anche un caratterino diretto da «òmo», per dirla alla toscana. Non aveva bisogno di ricorrere alla civetteria ipocrita, per instaurare un livello reale di comunicazione. Li faceva cantare, si faceva insegnare, ci cantava assieme. Scoperchiava un universo complesso di simboli, storie, abilità, competenze negate, neppure supposte da parte dell’arrogante borghesia toscana, quella rappresentata da quella signora che, alla prima dello spettacolo Bella ciao, 1964, (quando Caterina era sul palco con Giovanna Marini e gli altri del Nuovo Canzoniere Italiano) si mise a gridare che non aveva pagato un biglietto per vedere cantare «la sua donna di servizio».
STORNELLI E RISPETTI
Il germe salutare, la benefica malattia delle canzoni, degli stornelli del Mugello, dei rispetti d’amore, delle ballate, delle ottave rime glielo aveva installato la sua tata del Mugello, Albina. Lei era nata in una famiglia di intellettuali e artisti di origine spagnola approdata a San Domenico di Fiesole. Nacquero così i suoi primi dischi, risultato di un inesausto lavoro sul campo a caccia della Toscana del canto popolare. C’erano, travasate nella sua, le voci della Paradiso di San Giovanni Valdarno, novantacinque anni e una memoria di ferro, dell’Annida, di Maria Ringressi, di Francesco Piazzi, leggendario poeta improvvisatore maremmano di versi poetici all’impronta per sfide da piazza e da osteria. Il primo disco si intitolò La Brunettina-Canzoni, rispetti e stornelli toscani, uscì nel 1964 per la leggendaria serie de I Dischi del Sole, la medesima etichetta pionieristica che pubblicò, lo stesso anno, anche i brani tratti dal citato e possente Bella ciao, odiato da bigotti, reazionari e militari che avevano avuto reazioni isteriche, agli spettacoli.
La poderosa chanteuse popolare se n’è andata il 16 luglio del 2007 a Firenze, aveva sessantaquattro anni: l’ultimo concerto l’aveva dato l’anno prima. Rivive ora con Caterina, il documentario realizzato da Francesco Corsi e prodotto da Kiné che è nei cinema italiani da sabato 15 febbraio. Dopo le programmazioni di Perugia, Genova e Sesto Fiorentino, ci saranno, fino a marzo, date a Roma, Milano, Bologna, Torino, Como, e un tratto di percorso finale nella sua Toscana. Bel tour de force: potrebbe ricordare quelle settimane intense in cui Caterina Bueno girava per l’Italia delle Feste dell’Unità, dei Circoli Arci, dei club con la sua chitarra e il suo cappello portafortuna. A distribuire buonumore, memoria viva e sferzanti aneddoti libertari.
TESTIMONIANZE
Corsi, classe 1980, è il regista che nel 2015 ha realizzato il prezioso Memorias, viaggi tra Spagna e Italia nei territori che conservano ancora l’eco tragica della guerra civile, ed è anche autore del libro L’utopia della base, edito da Puntorosso nel 2011. Caterina è stato realizzato nell’ambito del programma Sensi Contemporanei-Toscana per il Cinema, in collaborazione con l’Associazione che porta il nome di Caterina, dell’Istituto Ernesto Di Martino, e dell’Archivio del movimento operaio e contadino della provincia di Siena. Scorre la preziosa testimonianza di Giovanni Bartolomei, che mette le mani con commozione nelle decine di bobine, raccoglitori di ritagli e articoli, centinaia di cassette che ci conservano la sua voce indimenticabile in mille testimonianze diverse, un archivio imponente che testimonia un’attività febbrile, girano le voci di Giovanna Marini, di Jamie Marie Lazzara, di Andrea Fantacci, di Valentino Santagati, di Alberto Balia, il formidabile virtuoso di chitarra sardo qui ripreso in Senegal a far cantare la toscana di Caterina ai mandinké.
Affiora anche una scheggia di un’intervista del ’68 a New York del leggendario Ruggero Orlando, incuriosito dal tour di quest’arrembante ragazza toscana tutta estroversione, coraggio e forza d’urto musicale, che s’era spinta oltre Oceano. E c’è la voce di Dario Fo, da un’audiocassetta di un’intervista telefonica, che rammenta come Ho visto un re germinò da un ritrovamento di Caterina, e rari spezzoni video in cui riappare la mitica Cinquecento bianca con Caterina a caccia di canzoni e di interlocutori che avessero ancora nella memoria una canzone da salvare.
A un certo punto c’è anche la testimonianza di Francesco De Gregori che, ventenne chitarrista sconosciuto dal Folk Studio di Roma, si trovò ad accompagnare Caterina, donna assai generosa, in giro per l’Italia, cachet rigorosamente distribuito in parti uguali tra chi era stato sul palco. Per lei il Principe scrisse Caterina il brano meraviglioso che ancora qualche volta spunta nelle scalette dei concerti. Nel testo si dice «Questa canzone la vorrei veder volare sopra i tetti di Firenze per poterti conquistare»: poi dal vivo a volte è uscito dalla gola invece «per poterti consolare». Una volta Caterina lo andò a trovare in camerino per salutarlo e chiedergli conto di quella inaspettata «consolazione» nel testo, specificandogli brusca che lei non aveva bisogno di essere consolata. De Gregori abbozzò imbarazzato, cercando una sistemazione: «Tutti abbiamo bisogno di consolazione», e lei, di petto, che non le mandava a dire: «Io ’un so miha tutti», io non sono mica tutti.
Un bel viaggio, insomma, che regala emozioni profonde e ricostruisce il passaggio sul crinale sottile e difficile tra un’Italia che scompariva, e un’altra, forse più feroce, che stava nascendo. Un unico rimpianto: nel documentario ci sono due vistose assenze. Non c’è traccia di Sopra i tetti di Firenze, titolo tratto dalla citata canzone di De Gregori. È il magnifico doppio disco tributo alla Bueno che Riccardo Tesi, organettista che mosse i primi passi di una carriera imponente nella world music proprio con Caterina, le dedicò nel 2010, cofirmatario il chitarrista Maurizio Geri: entrambi appaiono giovanissimi n brevi preziosi spezzoni sui palchi, ma per loro solo una citazione un po’ anonima nei titoli di coda. Nessuna citazione, invece, per Bella una serpe con le spoglie d’oro, il disco con le canzoni ritrovate di Caterina Bueno che Marco Rovelli, già componente de Les Anarchistes le ha dedicato nel 2018, traendolo dallo spettacolo teatrale La leggera. Eppure uno come Moni Ovadia l’ha definito «Il legittimo erede di Caterina Bueno». Chissà come l’avrebbe vista, lei, la toscanaccia.