Al giro di boa delle Giornate del cinema muto si possono focalizzare alcuni momenti speciali. La serata inaugurale in cui il festival del muto mette in questione la propria identità proponendo le prime sonorizzazioni, ovvero la Vitaphone, che sincronizzava dischi e proiezione, con la bella voce di Beniamino Gigli in una statica posa del quartetto del Rigoletto, ma soprattutto con John Barrymore in The Man Who Loves, nei panni dell’aristocratico des Grieux, innamorato di Manon Lescaut, frizzante versione iperhollywoodiana dell’originale letterario, tra cappa e spada e la Marie Antoniette di Sofia Coppola. La corte reale dissoluta infatti è governata da un Richelieu queer che fa da pappone al Re, il quale bara alle carte per avere Manon, che giustifica candidamente il suo mestiere di cortigiana dicendo: «Sono solo una donna. E si sa che alle donne piacciono gioielli e vestiti». Grande John B. che si strappa di dosso l’abito talare per poter baciare la fanciulla, e nel volgere di un atto passa da seminarista ingenuo a innamorato che fa casetta con la sua Manon per diventare poi baro e cortigiano. Fino all’happy ending in cui la coppia è in vista di un’America salvifica e non muore nel deserto come nella Manon di Puccini. La Hollywood muta insomma si appropria con disinvoltura degli intrecci famosi e li mette in scena con audace libertà, rivestendoli dei generi che le sono familiari – c’è stato anche un Anna Karenina con il lieto fine, Love con Greta Garbo, ed è anche un bel film!

 

 

Altro grande spettacolo americano il Ben Hur (Fred Niblo, 1925), accompagnamento musicale scritto da Carl Davis, con alcuni segmenti in Technicolor che hanno suscitato applausi a scena aperta per la sorpresa di tale magnificenza coloristica. Non tutti sanno che questo Ben Hur, protagonista Ramon Novarro, fu girato parzialmente in Italia, per volere della sceneggiatrice-produttrice June Mathis (quella che scoprì e lanciò Rodolfo Valentino), ma ebbe una lavorazione così catastrofica che la troupe fu richiamata in patria e il film in parte rigirato a Hollywood. Ricca l’aneddotica: nell’agosto 1924 il delitto Matteotti provoca uno sciopero, cui partecipano anche le maestranze del film; per ritorsione i fascisti compiono una spedizione punitiva sul set, con pistole e manganelli, suscitando grande preoccupazione nella produzione americana. L’ordine viene ristabilito il giorno successivo, dando disposizione che riprendessero il lavoro solo gli operai con la tessera del sindacato fascista – come con Eternal City, per gli americani in Italia è più facile adeguarsi all’ordine fascista che reagire.

 

Louis B. Mayer, venuto apposta sul problematico set, decide di far allestire per la scena della battaglia navale un’ammiraglia nei cantieri livornesi di Tito Neri, mentre le triremi vengono progettate dagli americani ad Anzio; ma appena vengono spostate in Toscana, affondano – in proposito Kevin Brownlow racconta che il design delle navi fu quindi affidato a Camillo Mastrocinque, il futuro regista.

 

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I cantieri livornesi perciò recuperano la flotta affondata e costruiscono la «ammiraglia» in tempi da record. «Ci mettemmo, noi e i quattrocento meravigliosi lavoratori che cantavano l’opera e non guardavano l’orologio, quattordici giorni!» racconta Arnold Gillespie, l’aiuto scenografo. L’episodio più noto riguarda però la battaglia navale. Le quattrocento comparse interpretano per metà i romani e per metà i pirati macedoni, essendo in realtà per metà fascisti e per metà antifascisti, cosa della quale gli americani sono ignari. Si tratta inoltre di comparse pagate cento lire in più, dato che avrebbero dovuto tuffarsi dalle triremi in fiamme e nuotare in mare aperto, nel caso dei soldati, indossando ancora l’armatura. Le comparse, divise tra fascisti (i romani) e antifascisti (i pirati), lottano con autentica ferocia, finché l’incendio non scatena il panico generale e si tuffano in mare, ma molti non sanno in realtà nuotare e rifiutano di gettarsi in acqua; altri nuotano a cagnolino, in cerca di un appiglio, come si vede nella concitata sequenza. Secondo alcuni testimoni ci furono diversi morti, ma la Mgm mise a tacere la cosa. Anche le scene del circo sono segnate da tragici incidenti: almeno una comparsa sarebbe morta durante le riprese della corsa delle bighe e il numero di cavalli abbattuti, per le ferite riportate, supera il centinaio.

 

 

Un magnifico e controverso spettacolo è stato I Nibelunghi di Fritz Lang (1924), l’epica saga del Reno – visivamente uno dei capolavori assoluti del cinema muto, ma che non ha beneficiato in questo caso di un accompagnamento musicale adatto, troppo minimalista per una pellicola così monumentale e presentata in una maratona di cinque ore. Eclettico nella sua scenografia, tra Art Deco ed espressionismo (le grotte degli Unni nell’episodio di Crimilde sembrano quelle del Golem) il film racconta la leggenda dei Nibelunghi con un atteggiamento ideologico che ancora oggi intriga gli storici, laddove gli arianissimi eroi tedeschi proteggono fino alla morte il perfido Hagen (l’originale Dark Veder) che compie la vile uccisione di Sigfrido colpendolo alle spalle agendo secondo la ragion di stato. L’incendio del castello in cui si sono rifugiati i cavalieri nibelunghi non può non evocare le (future) fiamme del Reichstag. É proto-nazismo, o piuttosto l’espressione delle contraddizioni seguite alla prima guerra mondiale, in cui la Germania sconfitta è assetata di vendetta? La sceneggiatura della geniale Thea von Harbou mette infatti al centro i due vendicativi personaggi femminili, la valchiria Brunilde e la regina Crimilde, proprio in quella che sembrerebbe la più maschilista delle saghe, in cui gli uomini si passano le donne come bottini di una guerra per un onore perduto in partenza. Un fatalismo che Siegfried Kracauer sottolineava giustamente (in Da Caligari a Hitler) aver pervaso il cinema tedesco.

 

Spazio poi al cinema nordico, che conferma la sua superiorità all’epoca, con il magnifico Il tesoro di Arne (Mauritz Stiller, 1919) da un romanzo di Selma Lagerlof, tra tormente di neve, severe canoniche protestanti e incubi inquietanti, un’antica saga resa con un uso del paesaggio, della luce, delle fisonomie degli interpreti che ti fa dimenticare l’assenza delle parole senza bisogno di occhi strabuzzati o pose languide. A proposito di pose languide inaspettatamente piacevole La statua di carne (Mario Almirante, 1921) con Italia Manzini, un «diva film» in cui, oltre a circolare tra salotti liberty e bar tabarin, si respira un’aria diversa quando il film muove in esterni tra le sartine che confezionano fiori finti, oneste e generose. Lido Manetti, che nel film è il tenebroso conte Paolo, di lì a poco si trasferirà a Hollywood, per interpretare alcuni film come Hula con Clara Bow e Beau Sabreur con Gary Cooper, con il nome di Arnold Kent, ma muore in un misterioso incidente d’auto, che si mormora sia da ascrivere agli scandali che sconvolsero la Hollywood della Jazz Age.