Un poeta per Cassandra. E il pensiero va subito a Eschilo, alla scena dell’Agamennone in cui la giovane schiava , principessa reale figlia di Priamo, ostinatamente tace, per poi esplodere , quando rimane sola sulla scena, nella terrificante «visione» che preannuncia l’assassinio di Agamennone e la sua propria morte.
E invece il poeta scelto da Lorenzo Braccesi è Licofrone: Un poeta per Cassandra dalla Troade al Lazio («L’Erma» di Bretschneider, pp. 205, e 135,00). Licofrone: chi era costui? Greco di nascita (da Calcide in Eubea), visse ad Alessandria dove lavorò per la celebre Biblioteca: aveva quindi a disposizione tutto quel materiale poetico, storico, mitologico, mitografico – tutta quella immensa quantità di fonti, tra le più varie e disparate, tutte quelle di cui sono rimasti solo dei frustuli per lo più enigmatici, oppure niente del tutto. Ed è questo «tutto» che confluisce nei 1474 trimetri giambici in cui si dipana il monologo epico-lirico di Cassandra, da lui chiamata con il nome più dolce e familiare di Alessandra (col quale peraltro è venerata in Laconia e in Beozia).
Rinchiusa in un «carcere di pietra, senza tetto», Alessandra urla le sue parole al vento, tanto chi la sente non le crede; questa è la punizione di Apollo che il mito ci tramanda: la fanciulla, bellissima tra le belle figlie di Priamo, già promessa a degli eroi che però morranno in battaglia, non cede alle brame di Apollo. Da veggente e indovina qual era, diventerà profetessa invasata dal dio e conserverà, insieme alla sua verginità che la avvicina ad Athena, il marchio impostole da Apollo: parlerà, urlerà la verità futura, ma non sarà mai creduta.
Il carcere di Alessandra nella casa paterna è probabilmente un’invenzione di Licofrone, così come il servo che la sorveglia e che puntualmente riferisce a Priamo le parole della fanciulla. La profezia di Alessandra copre un lungo arco di eventi, dalla caduta di Troia, attraverso le peripezie degli esuli greci e troiani, fino alle leggende poco note che vedono gli eroi sopravvissuti raggiungere, dopo varie vicissitudini, le regioni del Lazio. Dalla Troade al Lazio attraverso Licofrone. Il quale raccoglie oltre alle fonti notissime, tutto il materiale perduto dell’epica post-omerica e probabilmente attinge anche occasionalmente al repertorio dei poeti tragici. Quindi, come giustamente Braccesi precisa, determinando la tradizione che fa da sfondo al poema, i Ritorni di Agìa, La piccola Iliade di Lesche di Lesbo, i Korinthiaka di Eumelo, le Ilioupèrseis di Arctino e Stesicoro, la Telegonia di Eugammone di Cirene, i Canti Ciprii. Non c’è dubbio, afferma Braccesi, che la trama unitaria tipica dei cantari è la fonte di ispirazione principale di Licofrone, ma ciò non toglie che anche dai singoli personaggi o dai singoli episodi trattati dai tragici, egli abbia potuto attingere materiali e informazioni. E allora è altrettanto utile ricordare che di Eschilo ci mancano, tra le altre tragedie, Il riscatto di Ettore e Il giudizio delle armi, di Sofocle un Aiace locrese, Andromaca, Ifigenia, Polissena, Filottete a Troia ecc., di Euripide Alessandro, Protesilao, Filottete, Troilo ecc.; a cui dobbiamo aggiungere tutta l’iconografia che lui poté vedere e che noi possiamo solo immaginare attraverso le descrizioni di Pausania nella sua Periegesi della Grecia. Aggiungiamo i frammenti rimasti degli storici Timeo e Lico, che senza dubbio Licofrone potè leggere integralmente.
Qual è dunque il problema? Perché Licofrone non è assurto alla fama dell’ultimo cantore delle vicende passate, l’ultimo vate, il grande epigono di una tradizione famosa? La ragione sta nella forma espositiva scelta dal poeta, il quale è «un poeta dotto, che si compiace di scovare nell’epica arcaica le notizie meno note … per riproporcele gravate dal peso di un ingombro allusivo oggi non più percepibile senza una sudata esegesi, ma in realtà già molto faticoso anche all’approccio di contemporanei che non fossero iniziati… al credo estetico dell’autore». Se c’è una definizione, questa sì famosa, per il poema di Alessandra, è quella di skoteinòn poiema, «oscuro carme».
È questo «oscuro carme» che Braccesi prende come guida, una scelta ardita e nuova, un’esegesi condotta mettendo in atto tutte le risorse dello storico al pari di quelle del filologo. Ne derivano non solo il lento e accurato scioglimento di un poema enigmatico, ma una serie di scoperte che gli restituiscono il valore di una testimonianza ineludibile. Il merito dell’autore è di aver affrontato con pazienza, battuta per battuta, si può dire, la delirante profezia di Alessandra, di aver scavato nei meandri delle sue allusioni, di aver letteralmente decrittato i suoi messaggi.
Come si è detto, l’ossatura del poemetto è data dai «ritorni», dalle vicende degli esuli greci e troiani, la diaspora dei superstiti, l’approdo in Occidente, le peripezie condensate in un’«odissea» che Licofrone ricostruisce secondo la sua interpretazione personale, ma attingendo a fonti per noi perdute o per lo più ignorate e disattese. Un’«odissea» che dall’antica Troia distrutta dalle fiamme ci porta alla nuova Troia edificata in Occidente da Enea, l’esule troiano che fondò Roma. Ed è proprio a Roma che si volge la profezia di Alessandra prefigurando nel tempo a venire i trionfi augustei.
L’«oscuro poema» è dunque finalmente decrittato? Ogni riferimento, ogni allusione trova la sua spiegazione, il suo scioglimento? Non è proprio così: l’esame approfondito di Braccesi ci aiuta a seguire le spirali in cui si snoda la profezia, ma senza un supporto, Licofrone rimane quello che è sempre stato: un poeta oscuro. Di grande aiuto e di grande impatto risulta quindi la traduzione che, se non ci rivela i fatti concreti, ci restituisce forse per la prima volta l’afflato poetico che sorregge il delirio profetico. Una traduzione che si avvale di un linguaggio aulico, ma comprensibile, di soluzioni elaborate ma piene di fascino anche nella loro pregnanza allusiva che nulla ci rivela ma ci seduce con il ritmo e con l’eleganza formale. Mi permetto solo alcune citazioni: l’invasione delle navi greche vista in prospettiva è un unicum («qual bisce serpeggianti, / ch’arrecano alla patria solo morte, / rovina, furia di fuoco di fiamme»); e la ballata della guerra danzata da Ares è un’immagine impressionante (« Già Ares danza la danza della guerra / incendia l’ecumene: / con suono di conchiglia dà l’allarme, / comanda l’aggressione»); la propria morte annunciata rivaleggia con la descrizione eschilea («Cadrò pur io stroncata, respirando / gli effluvi dei lavacri: dalla lama / calibica trafitta d’una scure. /… Il nome invocando / di chi più non intende, / il mio signore inseguo ribattendone / l’ombratili impronte: trasportata / nel nulla sopra refoli di vento»). E più oltre la sepoltura di Ulisse a Cortona («Nel rogo di Cortona calcinata / la salma. Sull’alture / del Perge in Tirrenia / le ceneri, disperse, poseranno / per sempre dell’eroe»), sepoltura seguita da una considerazione insolita: «migliore sorte avresti conosciuto / in patria rimanendo! Governando / il lento bove, l’asino aggiogando / insieme nel medesimo aratro, / sì da fingerti pazzo per schivare / gli’incerti della vita / che arrecano sì tragiche sciagure». Singolare intuizione di quello che forse era stato veramente il sogno di Ulisse figlio di Laerte: rimanere nella sua isola, coltivare la sua terra, costruire la sua fortuna. E non possiamo tacere l’exploit finale, quando la profezia «si accende di luce»: «Un giorno i discendenti del mio sangue / invitti sempre in guerra / di nuovo renderanno illimitata / la gloria della stirpe, / sul mare sulla terra imponendo / l’imperio, il dominio». Dove il riferimento ai Romani è esplicito.
Molto altro si potrebbe dire su questo saggio e sulla scelta di Licofrone quale guida . Ciò di cui non si può dubitare è l’estrema importanza e singolarità della ricerca.
A questo punto mi permetto una piccola aggiunta personale: trovo geniale in Licofrone l’immagine di una Alessandra circondata da mura, a tetto scoperto, che grida al vento la sua verità. Più singolare ancora il fatto che un servo/guardiano sia incaricato di riferire tutte le profezie al re Priamo: il quale, a questa figlia infelice, ma invasata dal dio, lui, forse, credeva.