Al campo di concentramento fascista di Casoli, una cittadina abruzzese in provincia di Chieti, gli internati passavano le loro giornate «in pieno ozio» condividendo spazi ristretti «dove regnava la promiscuità e la mancanza di riservatezza, con la possibilità di uscire in fasce orarie prestabilite, nello spazio circoscritto del perimetro del campo», controllato a vista dai carabinieri. Vi soggiornarono tra il luglio del 1940 e il maggio del 1942 gli «ebrei stranieri», tra il maggio 1942 e il febbraio 1944 gli «internati politici ex jugoslavi». Quando entravano dovevano consegnare il passaporto, il denaro, oggetti di valore e non potevano disporre di apparecchi radio. Il permesso per la visita medica doveva essere ogni volta autorizzato dal direttore che disponeva di un blocchetto di cedolini sui quali veniva annotato il nome e cognome dell’internato, la data di richiesta della visita e una prima indicazione del sintomo.

All’ internato politico, Vladimiro Lauric, sloveno, già gravemente malato, venne ripetutamente negato il ricovero urgente, tanto che morì all’ospedale di Lanciano il 15 agosto 1942. Gli internati dovevano pulire i locali, mentre lenzuola e asciugamani venivano lavati dalle lavandaie del paese. Nei primi due anni attorno al campo si era creata una micro economia, commercianti e artigiani del paese approfittavano degli internati ebrei più benestanti per vendere loro prodotti o servizi. Ma c’erano anche internati poveri. Clemente Linic scriveva: «Sono senza mezzi e senza alcun aiuto e vorrei migliorare la mia posizione con il lavoro, tanto più in quanto che non posso più sopportare la vita oziosa dell’internamento». Gli internati detestavano «l’ozio» a cui erano costretti. Molti di loro chiedevano di venire trasferiti in colonie di lavoro agricole o di poter svolgere i loro vecchi mestieri, almeno per mantenersi. Un ozio, inteso come nausea, noia, paura, talmente ricorrente tra molti di loro, da ispirare il titolo del bel libro di Giuseppe Lorentini L’ozio coatto Storia sociale del campo di concentramento fascista di Casoli (1940-1944), Ombre Corte editore, che analizzando i fascicoli personali di tutti gli internati, ricostruisce una pagina sconosciuta ai più dell’internamento civile fascista, utilizzato come strumento di politica razziale e repressione del dissenso politico da parte del regime monarchico- fascista.

I campi di concentramento del duce allestiti sotto il controllo del ministero dell’Interno, secondo Carlo Spartaco Capogreco, erano 48. Un numero che altri studiosi allargano fino a 53 e che non include i campi di concentramento che il regio esercito aveva allestito nelle zone di occupazione militare. Al 31 maggio 1940 ne erano già stati approntati per ospitare 4700 persone, complessivamente erano disponibili campi sufficienti per internarne 9400. Eppure, in occasione della giornata della memoria si parla solo dei campi di sterminio tedeschi dimenticando spesso l’internamento civile fascista introdotto nel 1938 con il regio decreto numero 1415.

Al cospetto dell’universo concentrazionario di Hitler i campi di Mussolini sono stati frettolosamente relativizzati e banalizzati. Eppure si è trattato di un sistema, sottolinea Lorentini, che venne utilizzato dal regime «per attuare la propria politica di repressione del dissenso, di prevenzione per la pubblica sicurezza e di persecuzione razziale». Elementi stranieri o soggetti ritenuti pericolosi dal fascismo venivano internati in uno spazio che il ministro dell’Interno chiamò «campo di concentramento».

Fino all’8 settembre del ‘43 veniva usato anche come detenzione preventiva per ragioni di sicurezza pubblica, affiancandosi così al già consolidato confino di polizia deciso da commissioni provinciali. Il primo campo di concentramento del duce venne realizzato nel Comune di Pisticci in Basilicata, dove vennero inviati i confinati politici per lavorare alla bonifica del territorio fino allo scoppio della guerra, quando furono trasferiti in altre sedi.

La scelta dei luoghi dove allestire non era casuale. Si trovavano in posizioni isolate, spesso in luoghi montagnosi con bassa densità di popolazione «preferibilmente non politicizzata». L’Abruzzo dunque presentava le caratteristiche ideali per allestirvi il maggior numero di campi di concentramento: 15 su 48 censiti. In quello di Casoli passarono, tra il 9 luglio 1940 e il 3 maggio 1942, 108 «ebrei stranieri». Di essi ben nove finirono ad Auschwitz, uno di loro morì nella Risiera di San Sabba ed uno riuscì ad uscire vivo da Bergen-Belsen. Alcuni riuscirono a scappare dall’Italia appena in tempo verso Fort Ontario, Oswego, New York, altri ancora in Portogallo, altri chissà dove. In Italia erano arrivati esuli scappati dalle terre naziste (Germania, Austria, Polonia, Ungheria, Slovenia) soprattutto dopo la promulgazione delle leggi razziali di Norimberga. Cercavano una sicurezza che durò poco poiché il regime, senza pressioni tedesche, promulgò le leggi razziali che obbligavano tutti gli ebrei stranieri entrati nel regno dopo l’1 gennaio 1919 a lasciare il paese entro sei mesi, altrimenti sarebbero stati espulsi. Per spingerli ad andarsene venne loro revocata la cittadinanza italiana.

Con l’entrata in guerra furono ben 4000 gli ebrei che non riuscirono ad emigrare e il 15 giugno 1940 il capo della polizia Arturo Bocchini emanò l’ordine di arresto. Vennero condotti nelle questure, presi in custodia nelle camere di sicurezza, nelle carceri delle grandi città vennero spogliati dei loro oggetti e averi. Per alcune settimane vi rimasero in condizioni igienico precarie disastrose, immersi nella sporcizia, con scarsezza di cibo. Il ministero li smistò poi nei campi di concentramento che aveva nel frattempo allestito soprattutto nel centro- sud della penisola.

Al campo di Casoli Lorentini racconta che il 3 maggio 1942 gli ebrei vennero spostati nel campo di Campagna (Salerno) per lasciar posto, dal 5 maggio, a 82 internati a maggioranza croata e slovena provenienti dal campo di Corropoli ( TE) che verranno sottoposti ad un regime ben più rigido di chi li aveva preceduti. Gli «Internati politici» provenivano dalle terre di occupazione italiana della ex Jugoslavia, nei documenti venivano definiti «ex jugoslavi». Dopo l’invasione di quei territori il regio esercito praticò l’internamento dei civili sul larga scala soprattutto nelle aree occupate o annesse nel 1941. «L’occupazione fu violenta e di chiaro stampo razzista, verso le popolazioni slave l’esercito ricorse spesso a metodi criminali mosso dalla volontà di sostituire la popolazione autoctona con coloni italiani – scrive Lorentini. Nelle nuove province italiane di Lubiana, Spalato e Cattaro, in quelle già esistenti di Fiume e Zara, il potere militare fascista procedette con internamento di massa delle popolazioni civili nei campi di concentramento di Arbe, Melada, Mamula e Prevlaka. Non solo, i cittadini «ex jugoslavi» vennero inviati anche nei campi di concentramento italiani sparsi sulla penisola».

Il ministero dell’Interno, per eliminare l’opposizione politica, userà dunque l’internamento come misura preventiva di pubblica sicurezza senza appello cosicché i perseguitati non avevano alcuna garanzia, così come invece erano formalmente previste dal confino di polizia. La loro liberazione avverrà solo alla caduta del fascismo con la circolare del 14 agosto 1943. Casoli oggi è stato dichiarato «luogo della memoria Europeo» grazie anche all’inaugurazione della Piazza della Memoria e alla posa delle pietre di inciampo prevista per il prossimo mese di aprile. Per saperne di più suggeriamo di consultare il sito www.campocasoli.org, ideato e curato dal Lorentini, un esempio di eccellenza di archivio digitale sia come strumento di consultazione a fini della ricerca storica, e in tempi di revisionismo come i nostri un importante e documentato strumento di trasmissione della memoria.