Cosa succede quando una catena commerciale potente, un marchio internazionale della grande distribuzione organizzata come Carrefour, decide di lanciarsi in una spregiudicata operazione di ripulitura verde della sua immagine? Carrefour, lo leggiamo dal sito, ha appena aperto, solo in Romania, nel mese di gennaio, 33 nuovi punti vendita. In Italia è ovunque, in Francia ovviamente occupa una posizione dominante. Ne parlavamo all’interno della Rete Semi Rurali. Questo settembre, Carrefour ha lanciato all’interno delle sue superfici commerciali l’operazione “Marchè interdit”, il mercato vietato, ovvero una specie di mercato, a suo dire, clandestino, di varietà orticole non iscritte nel catalogo ufficiale. Il marchio ha stretto un accordo con due associazioni di coltivatori bretoni, Kaol Kozh e l’APFLBB, entrambe fanno parte di Breizh Bio e del Rèseau des Semences Paysannes, il corrispondente francese della nostra Rete Semi Rurali.

L’accordo prevede, per cinque anni, l’acquisto e la vendita di una dozzina di varietà rurali recuperate dalla tradizione contadina e non presenti nel normale circuito commerciale convenzionale. Carrefour donerà un milione di euro alla “Maison des graines”, la casa delle sementi che le associazioni già hanno in gestione. Non solo, ha anche lanciato una petizione su Change.org per chiedere alla politica di cambiare la legge che vieta di commercializzare sementi e prodotti non iscritti nel catalogo ufficiale. La campagna pubblicitaria, realizzata da professionisti molto capaci, è efficace e persuasiva. Carrefour si erge a paladina della difesa della biodiversità e protesta con forza contro il decreto n° 81-605 del 18 maggio del 1981 che vieta (anzi, vietava) la commercializzazione delle sementi non autorizzate dal registro nazionale.

E così, grazie a queste due realtà contadine che hanno accettato di vendere a Carrefour le loro produzioni rurali, la campagna ha scatenato dibattito e diviso la stessa rete francese per le sementi tradizionali. Certo, dopo il caso Kokopelli, mai i media mainstream avevano così tanto parlato di sementi contadine, dell’importanza della biodiversità, della perdita e dell’estinzione di un patrimonio immenso di sapori, di gusti regionali che è andato in gran parte perduto, proprio grazie alla standardizzazione voluta dalla grande distribuzione organizzata.

La Francia è un paese che ha mantenuto e protetto molta parte della sua tradizione alimentare, basti pensare a come strenuamente vini e formaggi siano difesi con le unghie e con i denti da denominazioni di origine controllata e disciplinari rigorosi. Carrefour ha fatto centro. Con la sua potenza di fuoco ha fatto propri, agli occhi della moltitudine di consumatori che nulla sanno delle lotte ventennali dei coordinamenti contadini, le tematiche della tipicità e dell’unicità delle varietà antiche. Ha assunto questa battaglia adottando il linguaggio più militante e radicale possibile. Ha “sussunto” era termine noto negli anni Settanta, vuol dire scippato, così facendo Carrefour ha assorbito la carica di spontanea ribellione che non da oggi i “seedsavers” francesi sprigionano fondando reti e recuperando – come in Italia, come in tutto il mondo – quel patrimonio del passato fecondo messo in ginocchio dalle nuove tecniche di trasporto e conservazione.

Il dibattito nella stessa Francia è stato duro. Il fatto che Carrefour abbia donato un milione di euro alla Maison des graines e che abbia garantito l’acquisto di questa dozzina di antiche varietà della tradizione bretone – continuando a vendere 3200 varietà assolutamente generiche e derivanti dall’agroindustria più convenzionale – ha rischiato di spaccare il movimento.

Intanto, Carrefour, come hanno notare i militanti più avvertiti, mente spudoratamente: in Francia, come in Italia, ormai non è reato commercializzare verdure provenienti dall’agricoltura contadina, la legge dell’8 agosto 2016 all’articolo 11 (“Loi pour la biodiversitè”) permette la cessione e lo scambio della semente rurale. Non punisce nemmeno la trasformazione derivata da queste sementi. Quindi, una campagna basata sul nulla.

La rete transalpina delle sementi contadine, la RSP, non ha espulso le realtà coinvolte ma sta valutando seriamente, per il futuro, di vietare la vendita ai propri aderenti alla grande distribuzione. E sì, perché intanto, Carrefour è stata beccata dalla trasmissione francese Cash Investigation – una specie di Report – a commercializzare cotone derivante da mano d’opera schiavizzata e minorile coltivato in Uzbekistan. La giornalista Elise Lucet che ha portato la questione direttamente all’assemblea degli azionisti Carrefour prima è stata fischiata e insultata al grido di “gauchiste” (che equivale al nostro “sinistrorso”) e poi cacciata dalla sala.

Il servizio, debitamente documentato che France 2 ha regolarmente mandato in onda il 28 novembre 2017, mostrava come il cotone presente nei capi d’abbigliamento in vendita presso Carrefour, raccolto da mano d’opera sfruttata e precettata, nel paese centroasiatico poi veniva trasformato in Bangladesh, presso fabbriche altrettanto per nulla scrupolose dei diritti dei lavoratori. Non solo, la televisione belga a fine gennaio ha dato ampia notizia del piano di esuberi di Carrefour in quel paese, un migliaio di posti di lavoro a rischio. Insomma, l’idea di impiantare un mercatino nello stile di Genuino Clandestino nel seno della bestia, ovvero del sistema che strozza, sfrutta ed opprime contadini e i lavoratori riducendo i paesi a dormitorio – con i centri commerciali che restano aperti ininterrottamente e che prosciugano la vita sociale e spopolano i piccoli paesi – ha suscitato un vespaio. E se da un lato ha avuto il merito di porre la questione della difesa dell’eredità agricola rurale a milioni di persone, dall’altro questa operazione ha mostrato tutti i pericoli di assorbimento di piccole realtà sinceramente motivate. E poi, per Carrefour, un milione di euro sono bruscolini. E’ come se Total, dopo le rovinose maree nere delle quali si è resa protagonista inquinando con le sue petroliere spiaggiate, destinasse a qualche associazione lo 0,0001 per la pulizia di quei litorali.

L’affaire Carrefour insegna che accettare di prestare il volto del movimento altermondialista alla grande distribuzione significa prestarsi al gioco del green washing e perdere la credibilità acquisita in decenni di militanza. “Kaol Kozh” in bretone significa cavolfiore, forse non è proprio il caso vendersi per una cassoeula la propria libertà di sognare un mondo migliore.