Orazio Gentileschi, “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne”, 1608-’09 ca., Oslo, The National Museum of Art

 

«La quale istoria è affatto senza azzione». È ben noto il commento di Giovan Pietro Bellori (1672), il più grande critico della Roma del Seicento, di fronte alla Conversione di san Paolo di Caravaggio in Santa Maria del Popolo. Già Giulio Mancini, prima di lui (1620 circa), aveva peraltro argomentato come Merisi, insieme a tutta la sua scuola, per via di quella sua abitudine di dipingere sempre «dal naturale», ovvero con il modello in posa, non potesse eccellere nella pittura di storia, in cui l’azione doveva essere immaginata dall’artista, non messa in scena nel suo studio. Nessuno di quei due intendenti citava la Giuditta decapita Oloferne oggi a Palazzo Barberini (Gallerie Nazionali di Arte Antica): di fronte a quel capolavoro di narrazione drammatica, sarebbe stato certo difficile sostenere che Caravaggio non fosse capace di raffigurare l’«azzione». Il dipinto, però, nel Seicento veniva segnalato almeno da Giovanni Baglione (1642), e Bellori non poteva ignorarlo del tutto; forse la sua fu una censura, più che una dimenticanza.
Nell’esemplare mostra in corso proprio a Palazzo Barberini (Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta, fino al 27 marzo), curata da una delle più note e rispettate specialiste del maestro lombardo, Maria Cristina Terzaghi, si argomenta bene come quella tela fosse gelosamente custodita nella casa di un banchiere genovese trasferitosi nell’Urbe, Ottavio Costa (ovvero in un luogo non così frequentato come dovevano essere le maggiori collezioni della città, dall’Aldobrandini alla Farnese) ma, al contempo, come fosse continuamente citata e presa a modello da tanti emuli e seguaci di Caravaggio. La pittura di quest’ultimo fu da subito copiatissima, ma non tanto da incisori, quanto da pittori che cercavano di restituire la potenza del chiaroscuro e del colorito saturo del maestro. Ma se alcuni collezionisti, come Vincenzo Giustiniani, erano ben lieti che le loro tele caravaggesche fossero copiate, altri preferivano tenerle solo per sé, preservarne l’unicità: tra questi ultimi era appunto il Costa. Quella Giuditta dovette però subito fare un grande scalpore: mai, in pittura, era stato fino ad allora affrontato di petto l’acme della storia biblica, il momento stesso della decapitazione, e nella prima sala della mostra è illustrata efficacemente la tradizione iconografica cinquecentesca con la quale si confrontò Caravaggio, una tradizione che privilegiava o la raffigurazione dell’eroina stante con la testa decapitata in mano, o quella dell’occultamento della medesima testa in un sacco.
Nella sua tela, invece, Merisi mostrò in primo piano la lama della spada che affonda nel collo di Oloferne, colto nell’atto di lanciare un inutile grido. Quel grido deflagra dal fondo della seconda sala della mostra, e la sua eco si diffonde a destra e a sinistra delle due lunghe pareti dove sono collocate ben sei riprese da quel modello, tre per lato. Le mostre a tema iconografico tendono troppo spesso ad essere a maglie larghe, a offrire allo spettatore una casistica più o meno ampia, senza stringere su specifici problemi storico artistici. Qui accade fortunatamente il contrario: si ha la possibilità di vedere un’invenzione eccezionale declinata in tanti modi, tutti diversi, ma tutti simili, in sei tele accomunate dal taglio sempre orizzontale, dal formato assai simile, e dal soggetto identico, poiché da Louis Finson fino all’appena riscoperto Bartolomeo Mendozzi, tutti o quasi i pittori caravaggeschi della prima e della seconda ora, tanto a Roma quanto a Napoli (dove Merisi aveva dipinto una seconda redazione della Giuditta, nota attraverso repliche e riprese, ma mai rintracciata), si rifecero a quella scelta dirompente di mostrare l’eroina nell’atto di decapitare Oloferne. E così, nel gioco dei confronti, spicca Valentin, l’unico che con la sua stupenda e concentrata Giuditta, stagliata contro un nero più nero di quello di Merisi, anche perché privo di quel tendaggio rosso che era quasi un altro leit motif della serie, fu capace di non soccombere di fronte al suo modello.
Ma il caravaggesco per eccellenza, quello della primissima ora, Orazio Gentileschi, si chiamò fuori dal coro. Nelle due bellissime interpretazioni di quel soggetto presenti in mostra, il pisano prese le distanze dal Merisi: nessuna violenza, ma solo la suspense e la tensione che stringono l’eroina e la sua fantesca (non più una vecchia megera come in Caravaggio) quando, con la testa di Oloferne già recisa, hanno abbandonato la scena del crimine, ma non sono ancora in salvo (sono, sempre immerse in una nera notte caravaggesca, nel campo militare degli Assiri, dal quale devono fuggire). Raggiungere la medesima temperatura poetica di Merisi allontanandosi così decisamente da quel nuovo modello di narrazione, che aveva e stava conquistando tutti, poteva rivelarsi una sfida impossibile, ma Orazio vinse quella sfida, ed è un peccato che il suo nome non campeggi nel titolo della mostra, poiché egli ne è a tutti gli effetti il terzo protagonista.
La scena gli è però rubata, sempre nella terza sala del percorso espositivo, dalla figlia, che invece scelse la strada opposta, e in qualche modo superò Caravaggio sul suo stesso terreno, con una scena di un’efferatezza ancora oggi sconvolgente: difficile immaginare quale potesse essere la reazione del pubblico del primo Seicento di fronte alle lenzuola sporche di un sangue più convincente di quello di Hollywood che Artemisia dipinse nella tela oggi a Capodimonte. La pittrice adottò un taglio verticale, ma non abbandonò del tutto la tipologia del dipinto a mezze figure caravaggesco, conservando quindi l’effetto close up, di presa diretta dell’istoria e dell’azzione, in una soluzione la cui eccezionale originalità è esaltata dal confronto con la vicina tela di Baglione, un pezzo importante nel catalogo del pittore-biografo, che però non può rivaleggiare con i capolavori dei Gentileschi.
Dopo queste due sale, indimenticabili, anche perché frutto di prestiti difficili e importanti (da Oslo ad Hartford, da La Valletta a Montpellier), la tensione scema un poco nelle sezioni successive, dove pure le sorprese importanti non mancano, a partire dalla grande, originale e misteriosa tela di un maestro fiammingo ancora da identificare (collezione privata), di nuovo di taglio orizzontale, ma questa volta a figure intere, in cui l’eco del capolavoro di Palazzo Barberini è sempre ben riconoscibile, ma in cui allo stesso tempo si apprezza una soluzione compositiva che non ha veri precedenti nelle opere delle prime sale. Tra i comprimari di lusso della mostra ci sono poi artisti del calibro di Guido Cagnacci e Mattia Preti, con i quali il discorso arriva fino alla metà del secolo. Alcune scelte potrebbero sollevare dubbi, come l’inclusione della Giuditta di Johann Liss, giustamente riconosciuta più rubensiana che caravaggesca nella scheda di catalogo (riccamente illustrato a colori, e con un’articolata serie di saggi che coprono tutti gli aspetti indagati dalla mostra, compresa la storia sociale; Officina Libraria, pp. 183, e 29,50), ma un allargamento dello sguardo aiuta anche a mettere a fuoco la continuità della tradizione inaugurata da Merisi, di cui ancora nella quarta sala si può apprezzare un’altra declinazione, quella offerta da Bartolomeo Manfredi e Giuseppe Vermiglio, che nelle loro tele, pur schiettamente caravaggesche, rinunciarono a mostrare la decapitazione.
Nell’ultima sala c’è ancora spazio per un’ulteriore riflessione, questa volta più iconografica che stilistica, anzi quasi panofskiana, con l’associazione del tema di Giuditta con quello di David e la contaminazione con quello di Salomé (minimo comun denominatore, ovviamente, la testa decapitata); e il visitatore ha così l’occasione di un nuovo incontro con due capolavori di Valentin.
Una mostra non grandissima, perfettamente centrata, anche perché dialoga con la collezione permanente del museo che la ospita. Un invito, insomma, a ripercorrere le sale del piano nobile, per tornare a vedere i Gentileschi e i Valentin lì custoditi. E una lezione per tutti: anche con un nome che può sembrare ormai usurato da mille occasioni espositive, si possono mettere in piedi progetti validi tanto per la comunità scientifica quanto per il grande pubblico.