Tra i primi compiti di chi racconta il passato c’è quello di scegliere. Scegliere i temi da esaminare, le domande da porre alle fonti, gli «eventi» da valorizzare come più rilevanti. Nei libri di storia dedicati al mondo antico questa opzione di fondo non risulta sempre visibile: il fatto che le «fonti» siano per lo più insufficienti induce a credere che la selezione delle cose da dire avvenga prima del gesto autonomo da parte di chi indaga. Non è così, ovviamente. Anche per la storia dei greci o dei romani lo storico ha la libertà, e la responsabilità, e il dovere di scegliere. E proprio questa è la via percorsa da Federico Santangelo nel ripensare, contemperando originalità e rigore metodico, la storia di Roma antica in una sequenza di quaranta «vite», scelte come rappresentative, a vario titolo, della vicenda che andò dall’età dei re al principato: Roma repubblicana Una storia in quaranta vite, Carocci editore «Frecce», pp. 440, € 38,00). Le vite sono precedute e seguite da meditate osservazioni di metodo che discutono le implicazioni del taglio prescelto. Non sono delle vere biografie (che per pochissimi individui del mondo antico si potrebbero scrivere), ma piuttosto «casi di studio», attraverso i quali sono esplorati i modi in cui si strutturarono alcuni fondamenti dell’esperienza romana, dalla politica al mos, dall’approccio al sacro alla gestione della ricchezza. Collegate da sottili e però riconoscibili «ponti», le vite narrano di generali, politici, letterati, donne. Ma anche la vicenda di un vasaio, Plator, che compendia efficacemente alcune dinamiche dell’Italia «avanti il dominio dei Romani», giacché porta a parlare di «artigianato, mobilità e multilinguismo». Insomma, le quaranta storie aprono anche verso temi non sempre coperti dalle trattazioni più consuete.
Per alcune figure più arcaiche, come Lucrezia o Coriolano, non è in questione tanto la storicità, quanto la rappresentatività delle loro storie, comunque documentabili: da esse si lasciano capire meglio l’immagine delle aristocrazie, ma anche gli sviluppi dei conflitti sociali e politici. Santangelo in effetti non prende in esame casi «minori», bensì figure che sono state lasciate in secondo piano dalla tradizione, ossia dalla selezione delle fonti, e dalle priorità che gli studi hanno assunto nel tempo. Sono vicende talora meno documentate, ma altrettanto decisive che quelle più famose. Il libro, per la sua struttura e per aver adottato punti di visuale non logori, riesce a valorizzarle, pur nella consapevolezza delle lacune nei dati, più volte ribadita.
Evidente il caso di Gaio Popilio Lenate, l’aristocratico che nel 168 a.C. ebbe l’incarico di risolvere la crisi insorta tra i regni d’Egitto e di Siria, entrambi legati a Roma. In rappresenza del senato egli andò in Egitto e obbligò, con il famoso cerchio tracciato per terra, il re Antioco IV di Siria a deliberare sull’istante l’abbandono delle proprie mire espansionistiche. Attraverso il memorabile aneddoto Santangelo conduce a riflettere sulle strategie militari di Roma, sui modi in cui la politica gestì l’equilibrio egemonico nel mediterraneo, sulle vicende di un esponente «medio» della classe dirigente romana nell’età delle conquiste. Invece una figura come Ponzio Telesino, condottiero sannita impegnato in un duro scontro contro Roma, poi risolto da Silla, mette al centro la vicenda dell’Italia, della talora sofferta, ma poi solidissima integrazione di quelle regioni nell’imperium di Roma. Sono questioni centrali.
Altre figure che s’incontrano nel libro risultano sì note, ma trattate per lo più di sfuggita, in quanto finite nel «cono d’ombra» dei più grandi, quindi con effetti distorsivi sulla visione dell’insieme. Basta il caso di Tito Labieno, il fidatissimo alter ego di Cesare nella guerra gallica, poi passato però alla fazione di Pompeo. La sua vicenda è cruciale per la comprensione dei meccanismi profondi (personali, sociali, politici) che agirono nelle guerre civili romane, dove simili cambiamenti di schiera non furono rari. E anche per le fasi più celebri, o forse soprattutto per esse, basta spostare di qualche grado l’obiettivo dell’analisi per individuare situazioni eloquenti e non abusate: e così s’incontra nel libro non il politico Cicerone, bensì suo fratello Quinto, non l’oratore Cicerone, ma il suo collega Ortensio Ortalo. E nemmeno il letterato Cicerone, quanto invece il suo amico e corrispondente Attico, anch’egli molto preso, a parte le letture poetiche o filosofiche, da concretissimi affari di soldi e politica. Messe in disparte talune personalità obiettivamente ingombranti, Santangelo trova modo agevolmente di dare visibilità alle donne. Lo si vede soprattutto nella fase tardorepubblicana. Dopo Lucrezia, è questione di Cornelia, di Ortensia, di Servilia, di Fulvia e di Livia: e non in omaggio a astratte «quote rosa» della romanità o della storia, né per completezza di quadro sociologico, ma per obiettivo rilievo dei loro casi. Certo, anche tra i personaggi in vista della politica si possono individuare prospettive di notevole interesse: più che che su Marco Antonio e Ottaviano, i triumviri vincenti del dopo-Cesare, ci si sofferma sull’ambiguo loro collega Lepido, ma anche su Marco Agrippa, o su Asinio Pollione, attori decisivi nella fase di affermazione dell’Augusto.
Pure dai letterati vengono storie che fanno pensare: non solo dagli «arcaici» come Fabio Pittore o Livio Andronico, ma anche, in epoche più recenti, da eruditi come Nigidio, o come il «terzo gran lume romano», Gaio Varrone. E perfino l’umbratile vita di Orazio, letta con occhio storico, mostra le dinamiche talora feroci che agirono nei lunghi anni del potere di Augusto. Come è giusto, la selezione delle vite è, dichiaratamente «personale, parziale, persino idiosincratica». Si potrebbe notare che essa è anti-plutarchea, perché non cerca modelli di vizi e virtù, né esempi per narrare la storia a partire dalle grandi personalità. Ma non per questo si volge a esplorare «uomini non illustri», raccontandone la programmatica invisibilità, come fece Pontiggia. Attraverso una scrittura sobria e chiara, cui avrebbe giovato qualche tratto più brilliant (sull’esempio dello stile britannico), il libro riesce a mostrare anche in quale misura le dinamiche storiche risentano di snodi, o di possibilità mancate, o di alternative non esplorate. Quelle opzioni insomma, che il racconto «condiviso», nella propria implicita o esplitica telelologia, non può o non sa considerare. Le quaranta vite, paradossalmente, mostrano che per capire «come sono veramente andate le cose» giova tenere in conto anche quanti non furono al centro della scena, e però furono comunque attori (o attrici) degli eventi.