L’ingresso dalla Tuscolana era interminabile. Man mano che ci addentravamo, quella strada di cui non si scorgeva la fine trasmetteva una sensazione frammista a noia e angoscia. Poteva definirsi già città l’accumulo di fabbricati senza raccordo di forme e di tipologie, men che meno di stili, assiepato ai fianchi della striscia stradale che sopportava il peso di un traffico soffocante di mezzi d’ogni genere? Quel preambolo di città, della città capitale, svelava uno scenario inaspettato. Per la prima volta arrivavamo a Roma con la macchina, negli anni di mezzo, i ’60, che agli adulti apparivano più sconvolgenti di quanto in effetti fossero stati. Per noi adolescenti, che quegli anni li ritenevamo del tutto normali, era sconvolgente l’impatto con la strada, modificando per sempre l’immaginario che si aveva avuto di Roma, allorquando vedevamo scorrere lungo i cigli le case con i muri di cartone e con i tetti di lamiera: autentiche stamberghe (che punteggiavano varie zone della città) dove trovavano riparo persone delle quali non risultava traccia in nessuno dei libri, sui banchi della scuola statale, pregni invece di espressioni verbali magniloquenti nel descrivere la bellezza e il decoro della capitale d’Italia.

Lo scoprimmo solo più tardi il termine “baraccopoli”: veniva usato per identificare uno spaccato urbano tanto invivibile per chi ci stava dentro quanto invisibile per chi ne era fuori. Contrastava con la logica delle cose, pensavamo, che la città dei papi e dei governi del boom economico contenesse la realtà misera delle baracche. A chi spettava intervenire e spazzarle via? Del problema, negli anni ’60 a Roma, se ne occupavano in pochi: don Roberto Sardelli, un prete che viveva la stessa condizione degli umili; poi, a livello di denuncia, qualche amministratore pubblico come Piero Della Seta; qualche urbanista, come Italo Insolera; qualche intellettuale, come Pier Paolo Pasolini. Finalmente l’avvento della giunta del sindaco Luigi Petroselli, tra il ’79 e l’81, pose la parola fine. Una fine “ufficiale” delle baraccopoli con l’assegnazione agli occupanti di alloggi popolari.

Di fatto le baracche, mai sbaraccate, ebbero solo un cambio di padroni, con l’arrivo dei profughi di etnia slava che si lasciavano alle spalle i conflitti balcanici degli anni ’90. Nel tempo è cambiato anche il nome e gli insediamenti dei baraccati sono stati chiamati “campi nomadi”; spesso è stata attribuita loro la denominazione, eufemistica, di “villaggi della solidarietà”… Che ci s’inventa, giocando con le parole, per far apparire le cose brutte meno brutte di come sono! Restano i numeri però, giungendo all’oggi, e questi dicono che otto-diecimila baraccati di varie nazionalità danno vita, e colore, non solo alle borgate di periferia ma anche ai micro-insediamenti di aree urbane centrali. Alla neo-giunta capitolina, smaniosa di ben operare e misurarsi con le problematiche sociali, un franco “in bocca al lupo”.