In questi giorni di caldo soffocante si riscopre il mare vicino alle grandi città. A poco più di trenta chilometri da Roma, Fregene è sempre stata una meta tradizionale di villeggiatura per le classi benestanti dagli anni cinquanta in poi ma, con l’andare del tempo, si è trasformata in un luogo sempre più mordi e fuggi, un posto di mare dalla mattina alla sera o, al massimo, adatto per un weekend.
Le case degli attori e degli intellettuali al villaggio dei pescatori sono ormai circondate dalle macchine parcheggiate di chi va ai chioschi sulla spiaggia, perennemente affollati giorno e notte, mentre le eleganti ville di Fregene Nord sembrano sproporzionate per le esigenze attuali. Alcune appaiono ancora curate come un tempo, ma altre sono trasandate e i proprietari sperano di venderle al più presto o magari riuscire a trasformarle in alberghi o in residenze per anziani.
Eppure la parte di Fregene Nord mantiene il fascino discreto di un tempo e aggirarsi fra le sue strade per ammirarne le ville è un piacere che riserva anche qualche sorpresa inaspettata. Arrivando da Roma e percorrendo il Viale della Pineta, troppo spesso intasato di macchine che vanno o che tornano dal mare, appena dopo il pronto soccorso che per tanti anni è stato l’unico di tutta Fregene, sulla destra si gira in via Porto Azzurro e ci si avvia verso quella zona da sempre chiamata «il cantiere».
Dopo poco, sulla sinistra, fra via Maiori e via Marina di Campo c’è una villa che di certo non può passare inosservata ed è un piccolo singolare gioiello dimenticato e purtroppo completamente abbandonato dell’architettura del Novecento. La «Casa Albero», costruita fra il 1968 e il 1971 dagli architetti Giuseppe Perugini, Uga de Plaisant e da loro figlio Raynaldo, stravolge meravigliosamente ogni idea di abitazione della zona, costringendo a rifare i conti con la tranquillità borghese di quei viali alberati a pochi passi dal mare. Ormai trascurata da anni, ha da sempre emanato una sorta di fascino trasgressivo che si andava a sommare a quello, di per sé già forte, di ogni casa disabitata.
Un misto di cemento armato alleggerito da vetrate sporgenti e ferro battuto dipinto di rosso, dà vita a un insieme davvero riuscito di razionalismo, giocosità e sperimentazione tanto che ogni volta che ci si passava davanti, dopo qualche tempo che non la si vedeva, non avrebbe stupito trovarla ampliata con un nuovo volume, sfera o cubo che fosse, come in un qualche film di fantascienza o in un gigantesco gioco del lego. E proprio come nel gioco del lego, o forse meglio ancora del meccano, ogni sua parte sarebbe potuta essere, almeno in teoria, smontata e rimontata a piacimento per modificarne di continuo la forma e ridisegnarne il volto: a questo servono infatti quelle misteriose lettere incise su ogni blocco di cui tutti i passanti si sono sempre chiesti il significato.
I bagni sono facilmente individuabili in quanto bizzarramente situati all’interno di alcune capsule che sembrano sospese nel vuoto. Elementi predominanti del rigoroso gioco di accostamenti che caratterizza la costruzione sono il vetro, il cemento e l’acciaio tinto di rosso, mentre all’interno della casa si percepisce lo stesso dislivello che è presente all’esterno, superato grazie all’uso di scale che consentivano ai componenti della famiglia e ai loro amici di mantenere una discreta intimità senza la necessità di pareti divisorie.
Un muro di cinta convesso – caratterizzato anche questo dal costante connubio tra cemento e metallo dipinto di rosso – circonda il parco, anch’esso in stato di abbandono, circoscrivendo la proprietà senza però averla protetta nel corso degli anni dai molti vandali entrati a lasciare il segno deturpandola ulteriormente.
Giuseppe Perugini nacque a Buenos Aires nel 1914 e si trasferì a Roma negli anni trenta dove diventò fra l’altro uno degli allievi del geniale Adalberto Libera. Si laureò alla Sapienza e divenne professore di composizione architettonica. A lui e alla moglie Uga de Plaisant si devono parte del Monumento per le Fosse Ardeatine, ma anche la partecipazione con Manfredo Nicoletti, Vittorio De Feo e altri al progetto della città giudiziaria di Roma a Piazzale Clodio in cui è possibile ritrovare alcuni tratti caratteristici della «Casa Albero» di Fregene, ovviamente declinati secondo le necessità dell’architettura pubblico-istituzionale e non di abitazione privata. Quest’ultima naturalmente appare molto più sperimentale e provocatoria rispetto ai tre edifici a pianta rettangolare costruiti ai margini del quartiere della Vittoria che, dagli inizi degli anni sessanta, ospitano gli uffici giudiziari che fino ad allora erano distribuiti tra il palazzo di Giustizia a Piazza Cavour, palazzo Clarelli a via Giulia e palazzo Nardini a via del Governo Vecchio.
Sempre a Perugini si deve la realizzazione di quel coraggioso monolite a forma di H che è l’hotel Delta su via Labicana, quasi di fronte al Colosseo: l’architetto lo realizzò fra il 1972 e il 1975, anche questo caratterizzato da quelle vetrate che sembrano un sottile taglio di finestre in lunghezza che si aprono al mondo esterno e che sono presenti negli edifici di Piazzale Clodio e nella «Casa Albero».
A metà strada tra un sogno e una provocazione, tra una sperimentazione e chissà cos’altro ancora, la «Casa Albero» di Fregene è continuamente sfiorata da quantità di macchine dirette verso il mare, ma sempre meno persone si fermano davanti al suo ingresso per cercare di immaginare i tesori (di design) che poteva contenere e la vita stravagante che vi si svolgeva all’interno, in cui ci si muoveva disinvoltamente fra un cubo, una sfera e una stanza a sbalzo proiettata fra gli alberi della pineta: speriamo che l’interessante programma di recupero, anche attraverso una serie di visite guidate organizzate dal comitato che fa capo a un’associazione di cittadini di Fregene e all’architetto Raynaldo Perugini, oltre a non perderla del tutto, riesca a porla al centro di una rinnovata vita culturale di una cittadina che è sempre stata molto più di un semplice luogo di mare vicino a una grande città.