Nel 1988 è ultimato Io e il vento, l’ultimo film di Joris Ivens, un anno prima della sua morte. Diretto insieme alla moglie Marceline Loridan, è un documentario lirico che nasce dal desiderio del regista olandese di catturare il movimento del vento. È un poema visivo che registra gli incontri avvenuti nel corso di un suo viaggio – iniziato nelle montagne della Cina per terminare nel deserto del Gobi – a cui si aggiungono i suoi ricordi e sogni di adolescente, mitologie cinesi e citazioni dalla storia del cinema. I due avevano già lavorato in Cina, tra il 1971 e il 1977, per Comment Yukong déplaça les montagnes, film di dodici episodi, una preziosa testimonianza sulla Rivoluzione culturale cinese, a cui seguirono Les Kazaks e Les Ouigours, dedicati alle minoranze etniche che vivono nello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina.

QUESTI DUE ULTIMI film sono esposti in Starting from the Desert. Ecologies on the Edge, seconda edizione della Biennale di Yinchuan (visitabile fino al 19 settembre), ospitata al Moca, il maggiore museo di arte contemporanea del nord-ovest della Cina, che comprende anche un eco-park e alcune residenze d’artista. Una mostra articolata, curata da Marco Scotini che raccoglie in un percorso interdisciplinare le opere di novanta artisti internazionali accomunate da temi come il nomadismo, l’ecologia e le minoranze etniche. La città è significativa. Nell’antichità, Yinchuan era attraversata dalla Via della Seta, rete di collegamenti sviluppatesi per circa 8.000 km tra itinerari terrestri, marittimi e fluviali, per permettere scambi commerciali tra l’impero cinese e quello romano.
Di scambi e dialoghi la mostra è particolarmente ricca, ad esempio troviamo il ritratto dell’imperatore Qianlong, dipinto nel 1714 dal gesuita Giuseppe Castiglione, il cui nome era stato trasformato in Lang Shining, che testimonia come il missionario avesse armonizzato la tecnica pittorica occidentale allo stile cinese. E le fotografie scattate dal veneziano Felice Beato nei suoi otto mesi trascorsi in Cina, nel 1860, per documentare la spedizione anglo-francese in quel paese, viaggio che gli aveva permesso di portare al suo ritorno in Europa le prime immagini di Pechino e Guangzhou.
Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi con Images d’Orient-Tourisme vandale ci mostrano lo sguardo predatorio dei coloni inglesi, insieme alla subalternità e alla sottomissione dei corpi e dei volti degli orientali, in questo caso indiani, ripresi dall’occhio macchinico delle cineprese occidentali. Imagining New Eurasia è la videoinstallazione dell’architetto Kyong Park che documenta e indaga gli sviluppi della «Nuova via della seta», denominata One Belt, One Road, network di strade e infrastrutture che dovrebbe collegare la Cina con oltre 64 paesi tra Africa, Asia e Europa e creare nuove rotte commerciali.

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L’AMBIZIOSO PIANO geopolitico, fortemente sostenuto dal presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, è iniziato nel 2013 e dovrebbe essere ultimato entro il 2049. «È sorprendente il lavoro che molti artisti del sudest asiatico e della Cina stanno facendo intorno a tematiche ecologiche – commenta Scotini – Insieme al team curatoriale, ho selezionato autori che si occupano di temi riguardanti l’ambiente e la relazione esistente fra pratiche artistiche, ecologia politica e questioni di genere. Il Trattato di nomadologia di Deleuze e Guattari è il testo che ci ha accompagnato nel delineare il concept della mostra».

NEI GIORNI dell’inaugurazione, Enkhbold Togmidshiirev, tra i maggiori esponenti della performing art in Mongolia, ha installato una yurta nel grande parco che circonda il museo. Per i popoli nomadi dell’Asia centrale la yurta è uno spazio domestico mobile che, in questo caso, l’artista ha attivato con una performance che si rifà a riti sciamanici antichi, servendosi del proprio corpo e di altri materiali organici.
L’installazione di Baatarzorig Batjargal testimonia le trasformazioni della Mongolia nel corso dell’ultimo secolo, dalla repressione del dominio sovietico all’iniquità e alle usurpazioni ambientali contemporanee, conseguenza del turbocapitalismo globalizzato, mentre Alimjan Jorobaev, con la serie fotografica Great Silk Road, documenta l’elegia nomadica delle popolazioni kazake.

L’ARCHIVIO cine-geografico realizzato da Raphael Grisey e Bouba Touré raccoglie il lavoro compiuto dalla cooperativa agricola da loro fondata in Mali: un esperimento realizzato insieme a una ventina di attivisti, divenuto poi una forma di resistenza in una zona di grande esodo rurale. L’attivista di Hong Kong Zheng Bo è intervenuto nel parco del museo, piantando oltre cento pioppi e scrivendo, servendosi di piante selvatiche autoctone, lo slogan Earth Workers Unite.
Francesco Jodice ha documentato la scomparsa del lago di Aral a seguito della decisione di deviare il corso dei due affluenti del lago per costruire a Baikonur il più importante cosmodromo del mondo. Navjot Altaf e Sheba Chhachhi si sono occupate, con supporti filmici e fotografici, dell’attivismo dei movimenti ecologisti e femministi in India, unendo eventi biografici alla storia collettiva.
Sono diverse poi le opere che si occupano di istanze educative. I dipinti realizzati dai contadini del distretto di Huxian verso la fine degli anni ’50 testimoniano la volontà di testimoniare, con la pittura, la vita della nuova Cina. Seguiti da artisti professionisti dell’Accademia di belle arti di Xi’an e di altre istituzioni accademiche, i contadini dipingevano scene di vita agreste e raduni di masse di lavoratori. Presentati per la prima volta nel 1973 alla Galleria d’arte cinese di Pechino, le tele furono subito apprezzate dai critici del tempo per la straordinaria cromia e la qualità del disegno.

MAO TONGQIANG, maestro dell’arte concettuale cinese, presenta la sua collezione di documenti e atti di proprietà di campi agricoli, mentre l’archivio della conoscenza di Massimo Bartolini, intitolato Desert Dance, è una torre/biblioteca che raccoglie manuali tecnici cinesi non più utilizzati. Dispositivo scenico che dialoga con l’opera Voyages de Rhodes di Thao-Nguyên Phan. Con i suoi disegni, l’artista vietnamita interviene sulle pagine del dizionario scritto da Alexandre de Rhodes nel 1610, in cui il gesuita francese aveva trascritto la lingua vietnamita in caratteri latini. Traduzione linguistica che ha aperto la strada alla colonizzazione politica e culturale francese in Indocina e impoverito la capacità dei vietnamiti di leggere la propria lingua.
Infine, i collage di Leang Seckon (Cambogia) compongono una personale e lirica cartografia della storia politica e culturale del suo paese: una testimonianza importante, essendo tra i pochi artisti sopravvissuti al regime dei Khmer rossi. Starting from the Desert-Ecologies on the Edges è un dispositivo che dà forma a un atlante iconografico composto da diverse temporalità per indagare il rapporto tra istanze ecologiche e politiche neoliberiste.

 

SCHEDA

Nata nello stato dell’Uttar Pradesh nell’India settentrionale nel 1949, Navjot Altaf è una delle artiste più significative della sua generazione. Nelle sue opere le divisioni sociali, economiche e religiose sono indagate con processi relazionali, dove è l’interazione fra individui a determinare lo sviluppo del lavoro. Conosciuta per le sue installazioni multimediali, le sculture interattive e le serie fotografie, sin dalla fine degli anni ’80 il lavoro di Navjot Altaf ha alimentato interessanti riflessioni sull’arte indiana contemporanea, grazie al suo impegno in tematiche riguardanti l’ecologia e il femminismo. Dopo aver militato negli anni ’70 nel gruppo marxista di Mumbai Proyom (acronimo di Progressive Youth Movement), Altaf nel 1998 si trasferisce da Mumbai a Kondagaon, nel Bastar, nel distretto di Chhattisgart, nell’India centrale. In quella regione vivono gli adivasi, popolazione nativa indiana, e lì si era formato negli anni ’80 il movimento maoista contro lo sfruttamento delle risorse minerarie, di cui è ricca la regione, tra giacimenti di carbone, ferro e bauxite. La video installazione «Soul, Breath, Wind» presentata a «Starting from the Desert Ecologies on the Edges» è composta dalla registrazione degli eventi a cui l’artista ha assistito vivendo con le popolazioni native nel Bastar, partecipando alla resistenza contro la requisizione delle terre, documentando i danni ambientali e la violenza delle forze paramilitari.