In tempi di critica neopatriarcale alla cosiddetta teoria gender, il libro di Maria Carolina Vesce Altri Transiti. Corpi, pratiche e rappresentazioni di femminielli e transessuali (Mimesis, pp. 202, euro 20) arriva a dare ulteriori evidenze al fatto che sesso e genere non corrispondono né, tanto meno, sono riducibili a una dimensione binaria.

NON È VERO che o siamo maschi o siamo femmine, in modo necessariamente così netto e definitivo. Nell’introduzione di Simonetta Grilli questo viene messo in evidenza in modo chiaro, ricordando che i modi di costruzione possono essere «resistenti e alternativi all’ordine dicotomico maschile/femminile», gestendo il corpo in modo fluido, «generando un liberatorio continuum di posizioni fra il maschile e il femminile e, dunque, arricchendo il ventaglio delle forme di umanità possibili e legittime». Mentre, nella postfazione, Porpora Marcasciano evidenzia la centralità delle pratiche che costruiscono il mondo delle persone protagoniste di questo libro, le femminelle, facendo riferimento alla sua esperienza diretta di attivista impegnata nella ricerca, attraverso la quale ha visto il cambiamento dei rituali che fanno questo mondo, non più segnato in maniera evidente come in passato da una specifica e distinta dimensione spazio-temporale.

IL MONDO SOCIALE cambia e mutano rituali e simboli. Ed è proprio dentro questo cambiamento, questi transiti, e attorno ai simboli che si svolge il libro di Maria Carolina Vesce, che tiene al centro, come nell’etnografia condotta, le soggettività femminelle. È lo stesso Centro di documentazione Glbtq del «Maurice» di Torino che ha sostenuto la pubblicazione del testo all’interno della sua più complessiva attività di promozione culturale volta al superamento della dimensione omofobica, lesbofobica e transfobica, a evidenziare questa «volontà di far esprimere in prima persona coloro che possono rappresentare sé stess», offrendoci un contatto con una realtà che quando è conosciuta viene in genere raggiunta solo in forma superficiale.

MA CHI SONO le femminelle? In un’intervista, Maria Carolina Vesce lo chiarisce in modo preciso: «femminella è colei che si definisce femminella». Siamo di fronte, dunque, a un’identità, sebbene non stabile e duratura, né «definibile o rintracciabile una volta per tutte» o, meglio, a un insieme di pratiche che sostanziano una rivendicazione La rivendicazione di avvicinarsi al genere femminile, avendo come ideale di riferimento, addirittura, la Madonna. Non a caso, il libro si basa su una ricerca iniziata presso il santuario di Montevergine, ad Avellino, punto di riferimento delle femminelle campane soprattutto nel giorno della Candelora, che, per la religione cristiana, celebra la presentazione di Gesù al tempio e, localmente, è il pellegrinaggio che apre il ciclo dei culti mariani. Qui si venera la Madonna di Montevergine, conosciuta anche come Mamma Schiavona o Madonna Nera, oggetto di tanti canti devozionali, come quelli guidati da Marcello Colasurdo, ma anche quello di recente fattura di Enzo Avitabile che canta Mamma Schiavona espressione di «nu nomm na razz nu mister» (un nome, una razza, un mistero): una Madonna dal colorito scuro, con in braccio un bambino nero, che «tutto accoglie e tutto perdona», compreso il pellegrinaggio, chiamato juta, dei femminielli.

E proprio la juta è all’origine dell’esperienza di ricerca riportata nel libro, che si è svolta, poi, soprattutto nell’area napoletana, nel capoluogo e nei paesi vesuviani, aree in cui abitano le femminelle, sebbene in un contesto cambiato nel tempo, passato dalle esperienze post-guerra raccontate ad esempio in La pelle ai tentativi ambivalenti di patrimonializzazione, con il quale le loro identità e pratiche si confrontano. Maria Carolina Vesce ha incontrato le persone protagoniste della ricerca nei luoghi di vita. E le voci che parlano sono le loro.
Un libro corale, dunque, che ha il suo cuore proprio nel capitolo Frammenti di un discorso etnografico, con le storie raccontate da Gianna, Nina, Gina, Gerardo, Ciretta: mondi ed esperienze eterogenee, che evidenziano quanto non sia possibile ridurre le femminelle a un’immagine stereotipata, univoca e semplificata.
Identità inafferrabili, dunque, nonostante tanti tentativi di sottoporle a un discorso definitivo e, così, normalizzante.