Per la collana Not di Nero editions è arrivata nelle librerie italiane la raccolta dei testi dello pseudonimo anonimo collettivo «Comitato Invisibile», nell’attenta traduzione di Marcello Tarì. Il volume, arricchito dalla prefazione di alcuni «contrabbandieri franco-italiani», include i libri L’insurrezione che viene, Ai nostri amici e Adesso, usciti in Francia tra il 2007 e il 2017, e si presenta come una cartografia delle insurrezioni che si sono imposte sullo scenario politico a partire dalla rivolta delle banlieues parigine del 2005 fino all’esplosione del movimento Nuit debout, passando per gli scontri del 14 dicembre 2010 a Roma, le Primavere arabe, i movimenti Occupy e 15-M.

MA COSA ACCOMUNA le riflessioni contenute nella trilogia del Comitato Invisibile (pp. 354, euro 20) e la linea editoriale di Nero, rivolta prevalentemente all’esplorazione della galassia accelerazionista, da Mark Fisher a Eugene Thacker? Una risposta emerge già dalle prime righe de L’insurrezione che viene, nella denuncia della claustrofobia di un presente senza uscita in cui «il futuro non ha più un avvenire».

SENZA PIÙ ALCUN FUORI estensivo, il potere si è fatto interamente ambientale, insediandosi nelle infrastrutture, nella stessa organizzazione materiale della vita. Ponti, autostrade, trasporti ad alta velocità, social network, tralicci, non sono che il rendersi tangibile dell’arcanum di un potere pervasivo che unisce attraverso la separazione. Tutte le uscite sono sbarrate, l’immanenza è assoluta.
È di questa immanenza che intende farsi carico il Comitato Invisibile, innescando un’intensificazione, insistendo sul qui e ora, allo scopo esclusivo di rivelarne le fratture e la frammentarietà. Dialogando con la riflessione filosofica, in particolare con il contributo di Giorgio Agamben, gli autori anonimi si riferiscono alla loro strategia con un termine spesso frainteso, quello di destituzione.

Destituire non significa attaccare frontalmente il potere, ma neutralizzarlo, «privarlo del suo fondamento». La strategia destituente disattiva i corni delle dicotomie affermando il tertium datur: le polarità della teoria politica occidentale vengono inserite in un orizzonte che le co(i)mplica fino a farle coincidere, che le rende incomprensibili e ineseguibili, aprendo a nuove possibilità teorico-pratiche. Distruzione e affermazione cadono in un unico gesto: l’esibizione delle fratture coincide con la proliferazione di nuovi legami; la disorganizzazione della soggettività coincide con l’emersione di forme di vita singolari.

DISORGANIZZARE è organizzarsi. La forma riflessiva, indeterminando l’agente e il paziente, sottrae alla gerarchizzazione tipica dell’organizzazione, prende le singolarità «nel mezzo» di una continuità di frammenti, di un flusso di affetti, di un concatenamento di corpi, che diviene, immediatamente, composizione e comunità. Destituire non ha mai voluto dire altro che restituire la vita a se stessa. Con un gesto simmetrico a quello rivolto da Walter Benjamin al decisionismo di Carl Schmitt, il Comitato Invisibile assume i presupposti teorici dell’istituzionalismo solo per sabotarli.
È in questione innanzitutto un problema poetico, quello della veggenza, per dirla con Rimbaud, dell’inclinazione verso il presente, della sensibilità verso l’aver luogo delle forme nella materia, nella vita.

Non è facile dire se, oggi, per scorgere le forme sorgive delle composizioni politiche, occorra «risalire più indietro», fino a quella «apertura che ha reso possibile la nascita di tutte le autonomie»: la parola poetica nel secondo ’900. Entro quale soglia l’apparizione del corteo di testa nelle manifestazioni francesi del 2016 è separabile dalla poesia di Nathalie Quintane? Forse, allora, oltre a risalire più indietro, bisognerebbe rivolgersi anche ad altre, nuove, aperture poetiche. D’altronde, come scrive Benjamin citando un verso di Karl Kraus, «origine è la meta».