La Bucarest di Mircea Cartarescu non ha il contorno di città ma di un arcipelago di bloc, l’edilizia residenziale socialista, solcato da rettilinei boulevard che non imitano semplicemente quelli parigini di Haussmann, ma sono prospettive ininterrotte, senza soluzione né certezze. Attorno sta la grande pianura valacca che scende verso il Danubio, e che può sembrare la pampa – suggestione per nulla estranea all’autore romeno. Laggiù, fra i bloc, oggi spesso ridipinti, in appartamenti dalle pareti in cemento antisismico (dogma strutturale della periferia bucarestina) sono ambientati alcuni dei racconti di Melancolia, nuova raccolta del grande scrittore romeno (penetrante traduzione di Bruno Mazzoni, La nave di Teseo, «Oceani», pp. 262, € 20,00). A chi ha calpestato quei viali e ha incrociato gli sguardi dei suoi abitanti, questo titolo risulta fin troppo congeniale; ma nelle pagine di Cartarescu non c’è spazio per nostalgie: la sua Bucarest è prima di tutto prigione ed evasione, trappola e riscatto fantasioso di un narratore maturo.

In Melancolia all’arcipelago bucarestino si arriva approdando prima su un’isola immaginaria, dove sorge un deserto e lussuoso palazzo, la cui uscita è sorvegliata da un terribile guardiano. Il cielo è solcato da angeli, gli unici a scorgere oltre quella soglia un abisso, simile all’enorme discarica marina della storia. Il protagonista del racconto, come ogni marinaio di quei mari, giunto a metà dell’esistenza decide di avventurarsi nel palazzo, e per attraversare quella soglia ingaggia con il guardiano una lotta. Ma il suo avversario è in tutto simile a lui: un doppio, se non fosse che è mancino. Quello scontro faccia a faccia è senza esito. L’uscita gli è perciò negata fino a quando gli angeli non rivelano come la lotta sia in realtà una «danza» «senza fine e senza limiti», che non conosce tranelli o mosse astute, ma solo il superamento, nell’accettazione, della vita. Oltrepassare quel portale perde così ogni motivazione: il marinaio riprende il suo viaggio.

La mente disincantata di Cartarescu non fa concessioni all’esistenza. Il suo sguardo è di divertita amarezza. Forse è una reazione alla solitudine, condizione che lo scrittore ha condiviso con i suoi concittadini, nei bloc, lungo i boulevard, nei parchi con le panchine allineate dove ci si sente veramente soli, tutti assieme seduti, uno accanto all’altro, nelle interminabili domeniche primaverili. Eppure Bucarest lungo i marciapiedi nasconde un filo intricato e sottile di gioia (bucurie) come il nome del suo leggendario fondatore, il pastore Bucur.

Stile labirintico

Liberatorio è il gesto scritturale di Cartarescu: un agire fisico che da sempre è reazione metafisica alla prepotenza e alla noia. Scrive a mano, come lui stesso tiene a precisare. Labirintico, a tratti, come i più antichi quartieri della sua città natale, il suo stile: i racconti di Melancolia lo confermano con forza epifanica.

Se la scrittura di Cartarescu è gestuale, apparentemente improvvisata, la solitudine, condizione sua e nostra, è metodica, non lascia scampo: è il «teatro metafisico» dell’uomo – così l’ha definita – calato nella storia del mondo. L’invocazione di aiuto nel suo romanzo-capolavoro Solenoide ritorna perciò in Melancolia, nel bambino rimasto solo dopo l’improvvisa scomparsa della madre, e protagonista del racconto «I ponti». I ponti sono archi immaginari che quel bambino abbandonato e curioso percorre nel cielo di Bucarest uscendo dalla prigione domestica del bloc, non per una ricerca di evasione ma di relazione. Nella grande fabbrica davanti alla sua casa, scopre così il padre, divenuto un enorme Golem di caucciù non meno muto e assente di quanto lo fosse in famiglia. Nel magazzino chiamato Concordia (la relazione umana, appunto) ritrova invece la madre, uscita per la spesa e mai più tornata alla quotidianità monocorde.

È diventata anche lei gigantesca: un simulacro di cioccolata. Il bambino prima di abbandonarsi definitivamente al sogno, rinunciando alla realtà tragica e banale della vita, entra nel suo corpo cavo (la narrazione diventa a quel punto anatomica, complici gli interessi scientifici dell’autore: si veda il lessico del racconto «La prigione»), ne indaga i pensieri sotto la volta cranica di cacao, si cala nelle viscere, nella «matrice», per un ritrovato conforto uterino: una seconda nascita che gli restituisce la prima, ormai solitaria e negata.

Quella rinascita è stata l’aspirazione di un intero popolo. A Cartarescu la tirannia ha sottratto la giovinezza: trent’anni dopo dice che non dimentica, non perdona (o non lo può fare). La sua solitudine – ha spiegato – negli anni di Ceausescu l’ha voluta condividere con Mann, Dostoevskij, Borges, Sabato, Pynchon, Nabokov, e poi Salinger, Rilke per arrivare fino a Properzio (ma tra i romeni, oltre a Max Blecher, c’è il poeta Mihai Eminescu, al cui sogno «chimerico» Cartarescu ha dedicato la sua tesi di laurea nel 1980, in pieno regime). Forse nemmeno la scrittura può compensare quella giovinezza negata, ma ne è scaturito un possibile senso. E, soprattutto, la letteratura europea oggi ha Cartarescu.

Un diario onirico

I racconti di Melancolia sono anche un personale diario onirico dell’autore, fondamentalmente poetico, quello di un bambino diventato poi adolescente, per nulla miope. Il sogno schiude gli occhi e raffina la vista. Ivan, il ragazzo protagonista del racconto «Le pelli», «quindici anni e nessuno scopo al mondo», fluttua fra due età: l’infanzia dallo «splendore spento della seta che s’incontra in certi quadri antichi», e la maturità, «paesaggio spaventoso e attraente». Attorno, la città «più triste del mondo», con i suoi contrasti latino-americani (è Cartarescu a riconoscerlo) e la sua visionarietà un po’ sciamanica, con le infinite prospettive oscillanti su scale Richter, gli intonaci slabbrati, le Meduse liberty che dai palazzi mercantili hanno accolto gli invasori e resistito alle demolizioni del regime.

Gemello perduto

Cartarescu nel lungo «sogno» bucarestino di Melancolia torna inoltre a misurarsi con il suo gemello perduto (evocato nel racconto «Le volpi», dove ricompaiono i temi dell’infanzia, del gioco e della morte, e in qualche modo balenante nella scena della madre gravida davanti allo specchio nel racconto «I ponti»), oppure, come Ivan, si ostina a resistere all’oppressione cambiando la propria pelle, muta evolutiva di maschi urbani ammutoliti seguita dalla metamorfosi amorosa di un’umanità imprigionata, come quella condivisa con la compagna di liceo Dora, per spiccare il volo, per lasciare quel mondo di solitudine, pagando, invano, il prezzo della giovinezza.

Murato vivo, in un globo di cristallo di massima sicurezza, è accusato di aver commesso un crimine terribile, al termine di un processo di cui non serba alcun ricordo. La cella di ghiaccio, dove ogni richiesta di aiuto è impossibile, toglie al protagonista dell’ultimo racconto il desiderio di essere nato: «La prigione», questo il titolo, gli è stata forse costruita su misura. Impossibile uscirne. Bucarest alla fine si dissolve, non più prospettive né bloc, né ponti, né isole: quella di Cartarescu resta una coscienza assediata che cerca esclusivamente nel pensiero una via di fuga (un escamotage sociale collaudato nella cosiddetta epoca de aur). E l’immaginazione gli fa suddividere quella clausura in tre muri organici: una sottile membrana di neuroni, il cervello che spinge all’esterno, contro il cranio, fecondando la fantasia e infine quel corpo imprigionato, carne pressata dalla pelle che lo divide dal resto del mondo, e che lo separa, bozzolo perenne, dai suoi simili. Ma né la fantasia né il corpo rappresentano una reale via di fuga: la coscienza rimorde al prigioniero. Chissà che crimine mostruoso ha commesso – si chiede lui stesso. Non gli resta che trasformarsi in un grido come i dannati dell’inferno.