La mente di Dio, secondo Leibniz, è in grado di cogliere con estrema chiarezza l’immensa totalità dei mondi possibili, immaginando d’un colpo solo tutte le alternative che potrebbero darsi cambiando qualcosa, per quanto piccolo sia. Poi, a partire da questa raffigurazione completa, il Dio di Leibniz sceglie; e, nella sua infinita bontà, crea il mondo attuale, «il migliore dei mondi possibili». Che proprio questo sia il nostro mondo – il migliore di tutti – è cosa opinabile, e ben fece Voltaire a giudicare uno «scherzo» l’idea che, nello scegliere l’alternativa migliore, Dio avesse optato per quella che consiste nel «generare nella miseria dei figli infelici, destinati a soffrire ogni male e a farlo soffrire ad altri; subire tutte le malattie, provare tutte le afflizioni, morire nel dolore e, come rinfresco, venir bruciati per l’eternità».

Messo da parte l’ottimismo di Leibniz, l’idea che si diano mondi possibili – diversi da quello reale – coglie un’intuizione speciale, correlata ai concetti di occasione e di libertà: le cose potrebbero essere andate diversamente, se le contingenze, o le scelte, fossero state diverse da quelle che sono state. Nel pensiero contemporaneo, questo ambito di considerazioni è stato formalizzato nella logica modale di tipo aletico; e, malgrado la distinzione tra mondi possibili e mondo attuale possa apparire del tutto ovvia e scontata, non è mancato tra i filosofi contemporanei qualcuno convinto che il «darsi» dei mondi possibili (sul piano logico) implichi la loro esistenza effettiva.

Una tappa ulteriore, nell’attualizzazione dei mondi possibili, è legata a una formulazione particolare della meccanica quantistica, proposta dal fisico americano Hugh Everett III nella sua tesi di master degree, presentata nel 1957 a Princeton: piuttosto che costituire una mera interpretazione della meccanica quantistica (in contrasto con quella canonica, correntemente attribuita alla «scuola di Copenhagen») quella di Everett è stata considerata una vera e propria teoria. Il suo punto di vista, in ogni caso, si è andato imponendo a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, grazie all’interesse di fisici di grandezza stellare – come John Archibald Wheeler e Bryce Seligman DeWitt – seguiti vent’anni dopo da uno dei pionieri della computazione quantistica – David Elieser Deutsch.

Descrizione di uno scandalo
Oggi, la prospettiva avviata da Everett (spesso indicata con l’acronimo MWI – Many Worlds Intepretation («of Quantum Mechanics) è una delle più studiate e discusse, tra coloro che si occupano dei fondamenti della fisica contemporanea. Ne dà un’ottima presentazione – con un libro divulgativo di rara chiarezza – Sean Michael Carroll, fisico teorico di stanza al Caltech, animatore del podcast Mindscape, in Qualcosa di nascosto a fondo Il mondo dei quanti e l’emergere dello spaziotempo (Einaudi, pp. 293, € 28,00). Cos’è, dunque, la teoria (o interpretazione) dei «molti mondi», che Carroll fa sua? E come è legata all’idea che ogni evento possibile è anche reale, cioè all’idea che i mondi possibili esistono nella realtà, non solo nella mente di Dio?

Un’involontaria anticipazione letteraria della sua tesi è il romanzo che Jorge Luis Borges ha attribuito nel 1941 al governatore dello Yunnan Ts’ui Pên, nel racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano: «In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano, e si biforcano». Ecco: lo «stato» di un sistema fisico – secondo la meccanica quantistica – contiene l’insieme di tutti i possibili risultati di osservazioni compiute sul sistema; e questi possibili risultati sono alternativi tra loro. Sicché – secondo l’interpretazione canonica – ogni osservazione determina, per così dire, quale delle alternative si attualizzi, cancellando tutte le altre.

L’interpretazione canonica non si preoccupa di analizzare in cosa consista il passaggio da uno stato (indeterminato) di alternative possibili allo stato (particolare e ben definito) selezionato con l’osservazione; si limita a denotare il passaggio con un termine tecnico, mutuato dalla medicina e dalla scienza delle costruzioni: «collasso». Piuttosto che essere analizzato e spiegato dalla teoria, nell’interpretazione canonica questo processo cruciale diventa una regola, un postulato. Ma ogni osservazione è un processo fisico, una particolare evoluzione dei sistemi fisici, quando entrano in relazione con apparati di misura. Si vorrebbe che la teoria desse conto di questo tipo di evoluzione, delle sue ragioni, delle sue regole; non si limitasse ad assumerle. È dunque in qualche modo uno scandalo – per una teoria che si occupi dei processi quantistici – rinunciare a dar conto di ciò che succede nel corso di un’osservazione, preferendo assumere l’attualizzazione del possibile come una regola, non suscettibile di analisi ulteriori.

La teoria dei «molti mondi» si propone di eliminare questo «scandalo», assumendo una versione minimalista della meccanica quantistica, che fa programmaticamente a meno del «collasso» e anzi lo giudica un aspetto improprio, non necessario.

L’idea di Everett, di fronte al rompicapo dell’osservazione, è curiosamente analoga a quella di Ts’ui Pên: ogni osservazione (anzi: ogni interazione fisica) non cancella affatto le alternative possibili, non le fa «collassare»; semplicemente, le proietta in altrettanti mondi nuovi, che si vengono a creare da quello iniziale. E, siccome il reale è costituito da un numero immenso di interazioni, il numero dei mondi che vengono continuamente a crearsi – secondo questa prospettiva – sfugge quasi alla possibilità di essere immaginato. Il reale, nella sua accezione più piena e più veritiera, sarebbe composto da un numero immenso di mondi paralleli, inaccessibili tra loro, che continuano a «biforcarsi», per loro stessa natura.

Un senso di stupore
Ci si può chiedere come accada che a ognuno di noi sembri di vivere in un unico mondo, nonostante gli capiti in verità di venire moltiplicato continuamente, perché sede (e testimone) di processi quantistici elementari. Secondo la prospettiva dei «molti mondi» lo sdoppiamento sarebbe legato a un processo che prende il nome di «decoerenza quantistica», e che consiste in qualcosa del genere: quando un sistema quantistico entra in relazione con l’ambiente che lo circonda, o con un osservatore, forma un groviglio (entanglement) di tipo nuovo; tutti i suoi stati possibili – che erano inestricabilmente sovrapposti, e co-esistenti, prima dell’interazione – si accoppiano con quelli dell’ambiente, o dell’osservatore, trasformandosi in stati tra loro separati; oppure, meglio, in stati che appartengono a mondi diversi, tra loro separati.

È immediato interrogarsi sull’opportunità e sulla plausibilità di una teoria/interpretazione del genere, che pone problemi controversi. Per esempio: è legittimo introdurre in una scienza empirica entità (o «mondi») che non si possono controllare? Per quale motivo dovremmo condividere la bulimia ontologica di Everett, piuttosto che attenerci al principio di Ockham, che vieta la moltiplicazione degli enti «sine necessitate»? Cosa ne è dell’Io, in un’ontologia plurale di questo tipo? Sean Carroll dedica un intero capitolo del suo libro, per affrontare quesiti del genere. Di più: nella terza parte del libro, Carroll si impegna a mostrare che la prospettiva dei «molti mondi» può favorire l’emancipazione definitiva del pensiero scientifico contemporaneo, rispetto ai limiti dell’intuizione ordinaria e ai retaggi della fisica classica (quella di Newton, di Maxwell, di Carnot, di Kelvin e di Clausius). Perché esiste lo spazio? Cos’è un campo fisico? Da dove ha origine la gravità? Il tempo è un ente fondamentale, oppure emerge da qualche altra cosa? A tutte queste domande, la prospettiva dei «molti mondi» fornisce suggestioni particolari.

La tradizione invertita
Resta un senso di grande stupore: abbiamo davvero bisogno di una costruzione del genere, per concettualizzare scientificamente il reale? Che ne è del «reale», in un approccio di questo tipo? Qual è il motivo profondo, che dovrebbe spingerci in questa direzione? La risposta sembra essere alla fine dei conti di tipo estetico, oppure mistico, quasi erotico. Piuttosto che concepire la verità della meccanica quantistica come una mera corrispondenza ai fatti (del tutto congetturale), nel prologo del suo libro Carroll propone una sorta di inversione di questa autorevole tradizione, che dura da due millenni e passa (da Aristotele a Tarski, per fermarsi ai più noti): sono piuttosto i fatti (i «mondi») che dovrebbero adeguarsi alla teoria (e non viceversa), perché la meccanica quantistica «è la visione della realtà più profonda e più completa che conosciamo. Per quanto ne sappiamo attualmente, non è solo una approssimazione della verità: è la verità».

Ecco: il presupposto che la teoria sia vera, il culto della sua bellezza e della sua perfezione giustificherebbero l’attualizzazione dei mondi possibili, la tesi che attribuisce un’esistenza realissima a ciò che – per Leibniz – era soltanto nella mente di Dio.