«Mi seducono le tracce / i residui / l’abbandono lasciato / passando / dalla grande ala del tempo / la statua mutilata nel giardino»: questi versi si leggevano al centro di Angelus Novus, senz’altro la più bella poesia dell’esordio in volume di Stefano Carrai, Il tempo che non muore (Interlinea 2012). E sono ancora tracce nel tempo, larve o sopravvivenze tenaci della storia e della biografia personale strettamente intessuta alle vite di amici, maestri, affetti, quelle che Carrai (Firenze 1955) segue nel secondo meditatissimo libro, La traversata del Gobi (postfazione di Niccolò Scaffai, Aragno, pp. 125, € 12,00). Mai davvero attraversato, rivela la nota, dunque «deserto per antonomasia», il Gobi è qui «allegoria del mondo» in cui Carrai sta compiendo la sua «biologica migrazione». Per essere un deserto, «un paese di crete / di crepe», è straordinariamente popolato da figure care, benché in parte già ombre. Basti Spiaggia d’inverno, il compianto per Rosanna Bettarini e le sue «eleganti spiegazioni / tutte tremito / alla lavagna…», con la prefigurazione di quando Carrai, docente di Letteratura italiana all’Università di Siena, lascerà le aule e la vita sarà «come questa sera / che l’onda / fa spiaggiare e ammarare / pezzi di legno / corde / brandelli di rete». Rottami, avrebbe detto Montale prima degli Ossi di seppia.
Talvolta l’accensione memoriale è improvvisa, colpisce alle spalle e riporta nel magazzino del babbo con etichette e stagnole, fa scattare l’Intermittenza del cuore e il realismo crudo della storia: la «gamba amputata / buttata ancora calda dai guardiani di Schweinfurt / tra i rifiuti», garanzia d’impiego per il padre e di studi per il figlio.
I dati oggettivi offrono aperture elegiache o liriche senza nulla perdere della loro fisicità, del loro nitore di rivelazione. Il piano emozionale, pur dominante, è sempre tenuto, il senso della misura – che nel respiro e nel ritmo è novecentesca – non viene mai a mancare. L’occasione esistenziale condensa i fili narrativi in esatti tagli di sguincio, in particolari finemente profilati, carichi di un’evidenza toccante, spesso attenuata da un sorridente, garbato abbassamento: «non sono un luminare / sono un poeta neocrepuscolare». Esempio di rima baciata in odore di dichiarazione – mai credere troppo ai poeti! – tra altre riprese foniche, rime al mezzo, assonanze e consonanze, investite di valore semantico, come nell’allitterante «immenso / ingordo / incessante / ingoiare strati / su strati», o come in lenoni : Berlusconi che stigmatizza un’Italia non donna di province.
Alla poesia di Carrai è cara la ruminazione, la passeggiata (titolo ricorrente nei due libri, confermato da alcuni attacchi: «Camminando per via»; «Cammino sulla spiaggia»…), e la disposizione a interrogare luoghi e ricordi. Nei suoi versi non c’è illusione ma commozione, conscia pietas: «che pena fanno le ore che spariscono / e le giornate / insieme / con le tracce graffite // nella gola del Tempo-Minotauro». Se questo è il mostro vorace, i luoghi che abitiamo devono essere labirinti, percorsi tortuosi da cui la storia è indissolubile anche quando sembra silente, quando è trascurata da chi vive «spensieratamente», spazi che agli occhi del poeta offrono la trasparenza di dolori antichi, come in Paszkowski, una mattina, occasione riflessiva su una ragazza che lì «fu arrestata da tedeschi e fascisti / con la bomba che aveva nella borsa // le dettero di troia terrorista / poi fu portata via e seviziata / segnata per il resto della vita».
La sua «è poesia anche di luoghi», come Carrai ha scritto di Saba nella monografia appena pubblicata da Salerno. L’inclinazione odeporica inanella Istanbul, la Stazione di Ferrara lungo la quale passarono gli ebrei rastrellati nel 1944, Villa Borghese dove l’«io sulla panchina» proietta se stesso «in un fantasma», e Bagno Vignoni, Genova, Firenze con via dello Studio e il desolante ricordo della libreria Seeber. Torna Viareggio, già nel primo libro, qui «Viareggio di muscoli / delle arselle», con le sue «nostalgie» infantili e culturali.
Sono versi tramati di letteratura – Gozzano Saba Montale Sereni Caproni – versi cólti e decantati, dai quali si schiude un gusto poetico compiuto, ha ben ragione Scaffai nella sua bella postfazione. Cogliere i rimandi ha il suo incanto e i suoi motivi – cediamo solo allo splendido Soffici di Arcobaleno echeggiato in «prova a intingere un pennello / nel tuo cuore di cinquattotto anni» –, ma non spiega abbastanza. Ove questo libro è nuovo rispetto al precedente è nella sezione Il fiore in bocca, titolo fascinoso ma, in pirandelliana reminiscenza, fatale. È la non pacata consapevolezza, lì, del proprio idioma: lingua «addomesticata / ammaestrata», vibrante e scoscesa e «tutta metamorfosi», un po’ «da robivecchi» un po’ «mutilata», certo sedimentata nel profondo, e lingua però «non d’altri / mia».