Una storia d’amore. Lettera a mia figlia transgender (add editore, pp. 370, euro 18, traduzione di Chiara Brovelli), scritto da Carolyn Hays, pseudonimo di una nota autrice statunitense, è il resoconto di riflessioni, preoccupazioni, studio che la scrittrice ha accumulato dal giorno della nascita della sua quarta figlia, fino al compimento del suo tredicesimo compleanno. A contraddistinguere questo testo è prima di tutto l’intelligenza e la profondità di chi lo scrive: l’autrice ha studiato la condizione politica e le questioni medico-sanitarie connesse alle esistenze trans, nel tempo e attraverso diverse culture, riconoscendo immediatamente la limitatezza e l’inconsapevolezza del suo punto di vista. Hays non dimentica mai la sua transfobia interiorizzata e il fatto di non poter vivere sulla propria pelle l’esperienza di sua figlia, mantenendo una lucidità ammirevole, quindi, sul punto di vista dal quale scrive.

D’ALTRA PARTE nessuno potrebbe mai anche solo ipotizzare che l’autrice sia una madre colpevole: il libro trabocca di amore, di una capacità di ascolto e collaborazione, che non hanno falle e non connotano solo la relazione con la bambina protagonista del libro, ma anche il matrimonio tra l’autrice e suo marito Jeff, il legame con gli altri figli e dei fratelli tra loro. La scrittrice è consapevole che, insieme alla classe sociale e al fatto di essere bianchi, anche l’amore da cui sua figlia è circondata è una fortuna, un dono di cui moltissime altre persone non possono godere. Ciò nondimeno ci sono tante cose per cui anche loro devono lottare, e pericoli da cui proteggere la bambina: l’ambiente scolastico, per esempio. In vari punti del testo Hays cita statistiche sui suicidi dei ragazzi e delle ragazze transgender, ma anche sulle aggressioni, sugli omicidi.
Il maggiore pericolo affrontato dall’autrice e dalla sua famiglia è stato quello che sua figlia venisse data in affidamento. Il testo parte facendo riferimento proprio a questo episodio, al bussare alla porta che ha cambiato il destino di tutti loro. A causa di una denuncia anonima, infatti, la sua famiglia è stata posta sotto osservazione, con l’accusa di aver costretto un maschio a comportarsi e a essere considerato una bambina.

PER RIUSCIRE A GODERE di leggi contro la discriminazione sessuale, Hays e la sua famiglia hanno dovuto trasferirsi in diversi stati, lasciando case e lavori, per permettere alla propria figlia di andare a scuola, senza dover essere stigmatizzata, per garantirle la possibilità di vivere la propria identità e creatività, senza dover nasconderle in un angolo recondito del sé, con tutte le conseguenze del caso. Hays fa una riflessione fondamentale, infatti, sull’identità di genere, che sgombra il campo da tanti malintesi e da conclusioni raggiunte con troppa leggerezza: «qualcuno potrebbe arrivare a dire che il genere è un’idea, e che l’idea stessa è una costruzione sociale ma il luogo in cui il genere conta davvero è dentro di noi, all’interno della struttura del nostro cervello nelle storie che costruiamo su chi siamo, chi vogliamo essere e come vogliamo essere visti».

DALLA POLIZZA ASSICURATIVA per la copertura sanitaria che non copre le spese mediche per sua figlia, considerata affetta da una «devianza psicosessuale», alla scuola cattolica che non la accetta, preoccupandosi della reazione che potrebbe avere un bravo ragazzo timorato di Dio scoprendo che è transgender, Hays dà la misura della battaglia costante che deve combattere come madre accudente e dei «colpi al cuore» che vengono inflitti a sua figlia, nonostante l’unica verità sia che: «come dice Ru Paul: “siamo nati nudi, tutto il resto è drag”».