Nel suo caldo intervento di venerdì scorso, il sindaco di Roma Ignazio Marino tratteggia quell’insieme di scelte, alcune esplicite, altre tendenziali, che hanno finora caratterizzato la sua amministrazione. E fa bene a valorizzarne l’entità e anche il risvolto simbolico, e a rivendicarne i meriti (che peraltro non gli sono stati negati). Si potrebbe dire che chiudere la discarica di Malagrotta era ormai indifferibile, che le delibere urbanistiche di Alemanno erano state già bloccate dall’allora opposizione insieme ai comitati e alle associazioni ambientaliste.

Continuando, si potrebbe dire che spazzolare le aziende comunali da sprechi e ridondanze è di questi tempi né più né meno d’un atto dovuto, che ridimensionare il potere delle oligarchie clientelari era sostanzialmente una strada obbligata. Ma questo sindaco l’ha comunque fatto e lo sta ancora facendo. Bene.

Temo tuttavia che il nucleo critico che in città sta crescendo non stia tanto nel riconoscere o meno (sempre, talvolta o quasi mai), la positività dell’azione amministrativa, quanto nel non riuscire a cogliere l’impronta politica di questa nuova stagione in Campidoglio, né la strategia generale con cui realizzare quel cambiamento a più riprese evocato. Interrogativi, sindaco caro, che non necessariamente riguardano una maggiore o minore aderenza all’essere o sentirsi di sinistra. Semmai, hanno a che fare con il profilo culturale (di cultura politica) del governo cittadino.

Cosa dev’essere Roma, come deve diventare, con quali modelli economici e quali processi sociali deve progredire. Come può superare le sue arretratezze e avviare percorsi di rinnovamento, che la proiettino su una dimensione contemporanea. A cosa deve dare impulso e fornire investimenti: più welfare, più cultura, più ricerca, più turismo, più ambiente, più agricoltura, o ai soliti tiranti dell’edilizia, del commercio, delle burocrazie, o ai più aggressivi e speculativi impulsi finanziari. E, soprattutto, quali rapporti sociali sviluppare e con quali criteri di coinvolgimento e partecipazione, che sperimentino nuove dialettiche con la rappresentanza istituzionale.

Ecco, sia detto con rispetto, di tutto ciò, di un’idea generale sul futuro della città, lungo quest’anno di nuova amministrazione non c’è stata traccia. Al contrario, s’è assistito a un affannarsi alquanto inconcludente, senza particolari criteri né priorità. Contrappuntato da improvvide dichiarazioni, goffe impennate, annunci altisonanti e battutine minimaliste, a volte involontariamente comiche.

Il tutto, aggravato dalla persistente reticenza a non voler affrontare il vero ostacolo strutturale che ingabbia l’amministrazione. E cioè quel reticolo di vincoli e impedimenti di bilancio che impediscono ogni e qualsiasi politica economica, cosa che a Roma è particolarmente acuta per via di un debito ormai cronicizzato e di fatto inestinguibile. Ora arriveranno centinaia di milioni, ma condizionati a un piano di rientro che costringerà il Comune a ridurre l’offerta di servizi, svendere i propri beni e comprimere i già esigui investimenti cittadini.

Sarà difficile continuare a far finta di niente e ad arrabattarsi un po’ di qua e un po’ di là. Si dovrà scegliere. Il sindaco dovrà scegliere se consegnare alla speculazione il patrimonio comunale o riconvertirlo in edilizia sociale, se continuare a finanziare le impigrite istituzioni culturali o riconoscere i centri culturali indipendenti, se tagliare i servizi sociali o investire nei progetti sui nuovi bisogni. Dovrà insomma scegliere se adeguarsi al ricatto di patti e vincoli o disobbedire al commissariamento governativo, convocando, per esempio, la prossima giunta comunale nei locali sequestrati dell’Angelo Mai.