Alle 13.30 di ieri, per Massimo Carminati si sono aperti i cancelli del carcere di Oristano. L’ex militante dei Nar, una vita a cavallo tra eversione neofascista e criminalità, era detenuto dal dicembre del 2014, quando era scattata l’operazione «Mondo di Mezzo». L’indagine della procura di Roma, all’epoca coordinata da Giuseppe Pignatone, ruotava attorno all’ipotesi che a Roma operasse una criminalità organizzata di nuovo tipo denominata Mafia Capitale.

Per questo motivo Carminati era finito insieme all’altro protagonista dell’inchiesta, il ras delle cooperative sociali Salvatore Buzzi, prima alla massima sicurezza del carcere di Tolmezzo e poi a Parma, al carcere duro previsto dal 41 bis. I due, finiti alla sbarra assieme ad altri dodici imputati, secondo l’accusa si occupavano di recuperare crediti, di inserirsi nei meandri dell’amministrazione e di accreditarsi di fronte alla politica. La gran parte degli affari riguardava la creazione di «emergenze sociali» attorno alle quali lucrare e ottenere incarichi in affidamento diretto, cioè senza passare per le gare d’appalto.

Il 20 luglio del 2017 era arrivata la prima condanna: vent’anni di reclusione per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e una serie di altri reati. L’anno successivo, in appello, la condanna era scesa 14 anni e mezzo ma era stata riconosciuta l’aggravante dell’associazione mafiosa. Lo scorso 22 ottobre la Cassazione ha annullato quel verdetto e rispedito le carte in corte d’appello. Il nuovo processo servirà soltanto a ricalcolare le pene, ma a questo punto per Carminati sono scaduti i termini della custodia cautelare. Ecco perché ieri il tribunale della libertà ne ha disposto la scarcerazione.

«A fine marzo Massimo Carminati aveva già scontato il tetto massimo dei due terzi del reato più grave che gli è stato contestato: una corruzione», spiega il suo avvocato Cesare Placanica. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha dato mandato all’ispettorato generale di via Arenula di compiere sul caso «i necessari accertamenti preliminari».

La scarcerazione di Carminati dal punto di vista tecnico-giuridico è inappuntabile: una volta che l’alta corte aveva stabilito che il «Mondo di Mezzo» teorizzato enfaticamente dallo stesso Carminati in una conversazione intercettata dagli inquirenti non aveva nulla a che fare con la fattispecie mafiosa ma doveva servire a mettere in relazione la strada ai palazzi del potere, ad oliare certi meccanismi criminali, allora Carminati ha il diritto di attendere la nuova sentenza da uomo libero.

Eppure, come avevano ammesso gli stessi inquirenti nelle 900 pagine che quasi sei anni fa disponevano gli arresti, questa è una storia in larga parte fatta di suggestioni e narrazioni epiche, che talvolta tornano utili ai protagonisti per aumentare il loro peso specifico e intimorire il prossimo con la mitologia del soldato che si rialza sempre e che trova il modo di farla franca. Quel mito che è stato cucito addosso a Carminati fin da quando, negli anni Settanta, si muoveva al confine tra terrorismo e criminalità, tra esponenti della borghesia nera e sottoproletari desiderosi di scalare la società: soldi facili e scambi di favori.

Venti anni fa, era luglio del 1999, quest’aura di intoccabilità si fregiava del colpo alle cassette di sicurezze dell’istituto bancario del Tribunale di Roma, alla ricerca di preziosi ma anche di documenti scottanti per condizionare magistrati e avvocati del foro capitolino. Questa trama di ricatti e di connivenze, di relazioni pericolose e di capacità di mediare tra mondi diversi, era stata dipanata tra omissioni, ricostruzioni di comodo e allusioni trasversali nella lunga deposizione che Carminati aveva deciso di rilasciare proprio al processo per Mafia Capitale, nell’aprile del 2017.

In quell’occasione, come nelle intercettazioni ambientali contenute nel faldone processuale, si era capito che il mito del Nero, che dalle fiction sulla Banda della Magliana in poi ha fatto ingresso nell’immaginario collettivo, a Carminati non dispiace. Ecco perché la liberazione dell’uomo affaticato e un po’ invecchiato che abbiamo visto ieri potrebbe assumere ancora una volta un valore simbolico, sociale e politico che va ben oltre il codice di procedura penale e i singoli episodi di corruzione.