Chiunque legga questa recensione si sarà certamente imbattuto nella ritmica incalzante e drammatica del coro possente e cupo che fa da sfondo musicale alla cavalcata di re Artù in Excalibur di Boorman o alla sofferenza tossica di Jim Morrison nel film di Oliver Stone sui Doors, e che si riascolta nel Beowulf di Wegener, in Natural Born Killers e in decine di serie TV, di trailers, di horror movies, perfino di cartoni animati. Si tratta della riscrittura sinfonica, creata negli anni trenta del Novecento da Carl Orff, di O Fortuna, il canto in quindicisillabi ritmici che apre il manoscritto 4660 della Biblioteca di Stato Bavarese: la straordinaria raccolta di 315 testi (quasi tutti) poetici in latino e in medio-tedesco del XII-XIII secolo nota come Carmina Burana.

Nella sua «cantata scenica», eseguita ogni anno in tutto il mondo, Orff musicò 24 brani del manoscritto, ma esistono anche intonazioni della musica originale ascoltabili in piacevoli esecuzioni presentate come più filologiche (celebre quella di René Clemencic) di cui Youtube offre una scelta variopinta. Prodotto in zona tirolese intorno al 1220-30 come repertorio forse giullaresco e certamente performativo, per la corte del vescovo o (a seconda della datazione) del signore laico di Bressanone, il manoscritto era stato poi custodito e ignorato per secoli nell’abbazia di Benediktbeuern presso Bad Tölz, in Baviera. Venne «scoperto» nel 1803 da Johann Christoph von Aretin e pubblicato nel 1847 da Andreas Schmeller conservatore della Staatsbibliothek, dove era stato trasferito dopo la confisca statale dei patrimoni monastici. Fu una deflagrazione culturale che rese improvvisamente visibile un mondo letterario, musicale, universitario di carattere sentimentale e satirico, politico e parodico, antagonista e sarcastico, ribelle e sofisticato, che fino a quel momento non aveva documentazione. Le poesie, raramente attribuibili ad autori noti (come Gualtiero di Châtillon o Filippo il Cancelliere) e in massima parte anonime, si articolano in tre sezioni: una di argomento morale – per lo più canti irridenti o sdegnati contro il degrado sociale e l’ipocrisia della curia papale; una di carmi d’amore, delicati o sfacciati, che da sola raccoglie più liriche erotiche di quante ne avesse prodotte il medioevo nei sei secoli precedenti; e una terza, ancora più sorprendente, dedicata al gioco (con splendide miniature sui dadi, gli scacchi, il trick-track), al piacere di bere (come In taberna quando sumus, ancora cantato nelle birrerie tedesche) e all’esaltazione della «vita spericolata» teorizzata da manifesti di controcultura come l’Apocalisse di Golia che fingono di confessare e in realtà proclamano valori contrari al perbenismo della società, esaltando il fascino di una esistenza «maledetta» e bohémienne.

Il nome stesso di Golia si riferisce a una specie di movimento contestatore, bollato con disprezzo da san Bernardo, che rovesciava i paradigmi teologici correnti: la sua ispirazione darà luogo nel tempo alla cultura poi chiamata «goliardica». Insomma, un monumento straordinario (ma non il primo né l’unico «canzoniere», come invece si legge spesso: lo precedono raccolte altrettanto affascinanti anche se meno dirompenti, come i Carmina Cantabrigiensia dell’XI-XII secolo) non solo della contro-cultura medievale ma di tutta la storia culturale europea. Un tripudio pirotecnico di allusioni mitologiche e religiose, di innovazioni stilistiche e ritmiche, di cui incredibilmente mancano ancora una traduzione italiana completa e tanto più un commento, dopo una serie di tentativi antologici avviati fin dall’Ottocento e alcune esitanti prove d’autore (un paio anche di Pasolini, attentissimo all’aspetto ritmico e alla dolcezza del tono).

Fra gli elementi la cui complessità interpretativa ha elevato i requisiti necessari a una simile impresa è il corredo musicale rimasto in alcuni Carmina, che è di tipo neumatico, cioè con segni in campo aperto: questi di solito non consentono la trascrizione di elementi come la chiave, il ritmo e l’altezza della nota, ma per fortuna altre attestazioni manoscritte con notazioni più complete o su rigo ne permettono l’esecuzione. Soprattutto di questo aspetto si occupa l’esuberante studio del musicologo Davide Daolmi (Carmina Burana, una doppia rivoluzione L’invenzione medievale e la riscoperta novecentesca, Carocci «Biblioteca di testi e studi», pp. 300, € 33,00), che indaga sulla costruzione storica del suono e dello stile abitualmente presentati come medievali e propone analisi molto accurate e personali dei contenuti di alcune «canzoni» burane, che vanno dalla liricizzazione delle quinque lineae amoris (sguardo, contatto, conversazione, bacio, unione) alla canzone di crociata Nomen a sollemnibus. Altrettanto vivaci e creative sono le traduzioni di alcuni testi da lui offerte, che hanno il pregio di rispettare al massimo, con esiti godibili e cantabili, l’impianto ritmico e sillabico e perfino il complesso gioco delle rime come finora non era riuscito a nessuno e come sarebbe impossibile se ci si volesse attenere strettamente all’originale latino.

Il medioevo è un iperoggetto sfaccettato e sfuggente su cui è quasi impossibile non incorrere in semplificazioni o inesattezze, ma la trattazione di Daolmi presenta il vantaggio di ricostruire con spietata acribia l’iter delle disinvolte attribuzioni dei Carmina a poeti famosi come il narratore «fantasy» Walter Map o il filosofo Abelardo e la costituzione dei corpora di autori coinvolti nella raccolta come Gualtiero. In qualche caso il gusto della demitizzazione si scontra con acquisizioni consolidate come la categoria socio-culturale dei goliardi, che è certamente alterata dalle riprese successive ma non si può dire inventata, perché la attesta il loro detrattore san Bernardo e la confermano i titoli delle poesie. Analogo il discorso per i clerici vagantes, gli studenti raminghi da una sede universitaria all’altra: il revisionismo attuale può cercare di «smontare» la storicità della tipologia, ma le biografie dei poeti e la documentazione disponibile sull’università dell’epoca la documentano in maniera incontestabile. In qualche caso l’acume di Daolmi recupera ipotesi accantonate, come quella di Gustavo Vinay sull’identità fra Archipoeta e Primate (nickname di due dei più brillanti contributori alla raccolta), che effettivamente meritano, senza essere forzatamente santificate per amor di contrasto, di essere almeno ridiscusse.

Più tecnici ma altrettanto accattivanti sono i capitoli sulle forme musicali, che fra gli altri pregi offrono confronti dei pattern metrici con schemi successivi, come la Barform (aab) ripresa già da Dante per il rapporto fronte-sirma della canzone e attestata in centinaia di brani anche moderni (si citano Papaveri e papere, L’avvelenata o Imagine). La storia della versificazione ritmica medievale ha una sua estrema complessità, recentemente indagata nei cinquanta studi del progetto europeo del Corpus Rhythmorum Musicum, che ha prodotto poi un’edizione online, e non conviene ricondurla a vecchi patterns metrici come il tetrametro trocaico. Tuttavia l’approccio eterodisciplinare favorisce anche progressi interpretativi: ad esempio l’idea, suggerita nel volume, di contare l’effetto dell’anacrusi (cioè della sillaba soprannumeraria in levare che precede l’inizio di un rigo) è provvidenziale per la corretta comprensione dei brani.

La sezione potenzialmente più attrattiva per il lettore non specialista è la quarta, dedicata ai Medievalismi di oggi, che con lo stesso piglio demitizzante esplora la formazione delle idee comuni sulla musica medievale e sulle modalità con cui è stata eseguita dall’Ottocento a oggi, e finalmente ci libera dall’ossessione misticheggiante che impone una performance aritmica e arbitraria del canto gregoriano – come propugnata dalla congregazione di Solesmes – e ci accompagna alla scoperta delle personalità e degli stili che hanno tracciato l’interpretazione contemporanea della musica medievale, offrendo una breve panoramica anche sulle riscritture pagan folk o cornamusa-rock come quelle dei tedeschi Corvus corax o dei russi Drolls. La suggestione di Daolmi è che l’attenzione crescente alla musica medievale, diventato fenomeno di massa come quella per le saghe e le serie televisive di ambientazione medievale, è segno, fra i tanti, di una reazione ecologista e identitaria, popolare e rurale, allo spersonalizzante atlantismo neocapitalista che impone modelli esterni fortemente standardizzati. Fra le varie forme di neomedievalismo, quella musicale è una delle più viscerali perché coinvolge la corporeità e l’universo sonoro e favorisce una fruizione performativa, collettiva e rituale. In questo entusiasmo non sempre culturalmente fondato la filologia sembra dover accettare un tasso inevitabile di distorsione creativa, sapendo che proprio la riscrittura e la variazione orale costituivano, prima che la stampa ne fissasse il patrimonio letterario e musicale, un’eredità del mondo medievale.